Olivia Treat, a senior, poses for a photo with her class hoody at Hillcrest High School in Idaho Falls, Idaho on Wednesday, April 8, 2020. Treat said she likes to be able to still see her friends during the school day during their Zoom call-ins for class. (John Roark/The Idaho Post-Register via AP)

Dalle fabbriche alla passerella: la felpa col cappuccio compie 100 anni

Diventata uno dei capi di abbigliamento più insostituibili e versatile, fedele compagna degli outfit da quarantena e delle giornate di smartworking, la felpa col cappuccio compie 100 anni.

Nata come capo d’abbigliamento riservato a operai e sportivi – le sue caratteristiche la rendevano infatti  un capo tecnico, pesante ma confortevole – la “sweatshirt” (letteralmente maglia del sudore”) è un capo irrinunciabile del guardaroba dei millennials e non solo,  che negli anni ha sfilato tra i campi di football, i college statunitensi, le periferie del Bronx fino alle recenti passerelle dei brand di lusso.

Il primo modello fu stato realizzato negli anni ’20 in Alabama nella Russell Manufacturing & Company. Fu Bennie Russell a introdurre nella produzione della fabbrica di famiglia un nuovo modello di maglia, soluzione alternativa ai maglioni di lana indossati all’epoca dai giocatori di football che pizzicavano e irritavano la pelle. La richiesta era un indumento capace di offrire libertà di movimento e assorbire il sudore durante le partite e per questo motivo fu scelto un cotone molto morbido, solitamente impiegato per la biancheria femminile.

Si deve però a Champion, la consacrazione del successo della felpa negli anni’30, grazie all’idea di aggiungere il cappuccio, scaturita dalla necessità di fornire una protezione maggiore agli operai che lavoravano all’aria aperta e agli sportivi alle prese con gli allenamenti invernali. Negli anni Quaranta fu sempre Champion a inventare la felpa con la tasca davanti, detta anche “tasca canguro”.

La felpa come simbolo di appartenenza

Come spesso accade in questi casi, da una semplice intuizione si arrivò alla creazione di una vera e propria icona popolare: negli anni ’60 e ’70 infatti la felpa col cappuccio finì per diventare il capo preferito da ribelli e anticonformisti, writer, skater e appartenenti alla cultura hip-hop, che la assunsero come simbolo della loro “lotta” al sistema. Il cappuccio era il mezzo ideale per nascondere la propria identità e coprirsi il volto durante atti di microcriminalità, come borseggi, rapine e risse, o più nobilmente per riscaldarsi durante le pause tra i balli di breakdance.

Negli anni ’90 divenne protagonista indiscussa dei video musicali di giovani rapper, mentre il modello “hoodie” in particolare, iniziò a spopolare nei licei americani, come divisa dei giocatori di football della scuola con tanto di nome e stemma stampati sul petto, e delle cheerleaders che le facevano sfilare fra i corridoi dei campus.

Tra cinema e passerelle di alta moda

Fu così che anche le grandi aziende di moda si interessarono alla felpa con cappuccio. Nel 1967 la rivista Vogue pubblicò un servizio che ne mostrava una versione elegante, in cashmere e dotata zip. Qualche anno dopo, la stilista britannica Vivienne Westwood fece sfilare modelle vestite di felpe con cappuccio, strette come corsetti e decorate con stampe vittoriane. Dagli anni Duemila, la felpa con cappuccio è entrata anche nella moda di lusso, come tutti gli indumenti dello streetwear in generale (pantaloni larghi, scarpe da ginnastica, berretti, magliette e, appunto, felpe). Tra i primi ad aver presentato alle sfilate felpe di lusso, il giapponese Yohji Yamamoto nella collezione Y-3, realizzata in collaborazione con Adidas, per arrivare poi a quelle più recenti del belga Raf Simons, dello statunitense Rick Owens, del britannico John Galliano per Maison Margiela e dell’italianissimo Pierpaolo Piccioli per Valentino.

Come non ricordare il modello glitterato con 3 mila cristalli neri Swarovski e 15 mila paillettes, griffato Vuitton, che Timothée Chalamet ha indossato alla première inglese di The King, portandone in primo piano anche l’ aspetto gender fluid.

Anche il cinema ha portato sul grande schermo la felpa: una su tutte quella di Jennifer Beals in Flashdance diventata un vero must per tutte le ragazze dell’epoca. Grande successo anche quella di Elliot di E.T. (interpretato da Henry Thomas) che si stringe il cappuccio prima della biciclettata verso la luna, fino a Donnie Darko. Nel 1976 a renderla popolare anche il personaggio di Rocky Balboa che si allenava nelle gelide strade di Philadelphia con una felpa grigia con cappuccio. Il Wall Street Journal ha scritto che una delle felpe più costose di sempre è un modello indossato in Rocky IV, che fu venduto a un’asta del 2015, a Los Angeles, per 37.500 dollari dell’epoca.

Sono trascorsi 100 anni dalla sua nascita, ma tuttora la felpa resta uno dei prodotti più venduti all’interno dei negozi di abbigliamento giovanile e non solo. Al di là del messaggio socio-culturale che può esservi legato, indossare un capo che non impedisce i movimenti, che copre eventuali forme indesiderate o che semplicemente tenie al caldo, è un’opportunità che mette d’accordo tutti, dal liceale che deve affrontare la giornata di scuola, all’uomo che si prepara per recarsi in palestra, dalla ragazza che prende in prestito quella del fidanzato, fino alla donna in carriera che desidera dare un tocco più informale al look da ufficio, indossandone una sotto un blazer oversize.