Ironico e malinconico, l’ultimo film di Woody Allen (che nonostante i suoi 80 anni mostra di essere ancora molto produttivo), costituisce un salto di qualità rispetto al precedente “Irrational Man”, per diversi aspetti poco brillante e originale. “Cafe Society” è un film molto più ragionato. Non di puro intrattenimento. Una riflessione dai toni sognanti e amari, mediata dalla grande ironia creativa dell’autore e dalla sua straordinaria capacità di “fare commedia”, soprattutto attraverso i dialoghi.
La pellicola racconta di Bobby Dorfman, un giovane ragazzo ebreo (Jesse Eisemberg) il quale, stanco di lavorare nella bottega del padre, cerca fortuna a Los Angeles, dallo zio Phil Stern (Steve Carell), agente cinematografico di successo. Attratto dalle prospettive offerte dal “fantastico” mondo del cinema, (“come un cervo abbagliato dalle luci della città” per citare una battuta del film) però, il giovane viene presto deluso dalla vacuità dell’ambiente che, in fondo sembra non interessargli come pensava. A “rapirlo”, invece, è una ragazza: non un attrice famosa di Hollywood, ma la segretaria dello zio, Veronica (Kristen Stewart), semplice e proprio per questo affascinante, di cui il protagonista si invaghisce perdutamente; ma la loro relazione genuina, ben presto viene ostacolata dalle tentazioni e dalle dinamiche irresistibili della cafe society del titolo, l’ambiente ricco e sfarzoso della “gente che conta”, che impone di fare scelte obbligate a chi vi si ritrova “inghiottito” suo malgrado.
Non si tratta di una demonizzazione del mondo dello spettacolo, nè di una sua ridicolizzazione. L’analisi di Allen è più sottile. La cafè society è una realtà che, come in un vortice, attrae chi vi rimane coinvolto, in grado di appagare e dare soddisfazioni che difficilmente si potrebbero conseguire in altro modo, ma che alla fine lascia un vuoto: il rammarico di una semplicità perduta, il sogno nostalgico di un’ autenticità ormai impossibile, perché legata esclusivamente al passato. Emblematico lo smarrimento finale dei due giovani che, nonostante il successo raggiunto, vengono assaliti dall’interrogativo su come sarebbe potuta essere la loro vita se si fossero comportati diversamente.Il regista riflette con abilità sul tema del rimpianto e della scelta, senza però farlo pesare sullo spettatore.
La pellicola, infatti, è una commedia vivace, dalla fotografia elegante (è la prima girata in digitale dal cineasta) ed è scandita da una gradevole colonna sonora jazz, con cui vengono ricreate le atmosfere degli anni 30’ e si intrattiene lo spettatore durante le divertenti gag sulla criminalità organizzata (che ricordano molto l’ironia di “Pallottole su Brodway”); il tutto è condito con siparietti di intermezzo: “umorismo ebreo” sulla religione e dialoghi cervellotici, tipici della filmografia alleniana. Molte anche le citazioni dei precedenti film, tra cui “Mahnattan”, nella scena in cui Bobby dichiara che non esiste città migliore in cui vivere.
Nel finale, la musica che fino a quel momento aveva sostenuto il tono rilassato e scanzonato della pellicola, si fa più malinconica, assecondando con continuità il cambiamento di registro. Ne esce fuori un’opera molto equilibrata e non banale, più interessante di “Magic in the Moonlight” (del 2014), film decisamente più leggero e frivolo, sebbene simile per ambientazione e atmosfere (sempre negli anni 30’).
Per quanto riguarda gli attori. Ben scelta Kristen Stewart che incarna con i suoi occhi chiari, “sognanti”, a tratti timidi e un po’ tristi, l’amarezza di fondo della pellicola (come la donna piangente della locandina originale). Molto convincente la prova di Jesse Eisemberg, che è a suo agio nei panni dell’alter ego di Woody Allen.Gli somiglia fisicamente, è’ piccolo, magro e un po’ ingobbito, ma anche caratterialmente: è nevrotico, loquace, sfacciato, intraprendente e sagace. Una differenza fondamentale, però, rispetto alla lunga galleria di personaggi delineata dal regista nei suoi precedenti film è che egli è sempre sincero nelle sue emozioni. Non imbastisce tradimenti(“Hanna e le sue sorelle, Harry a pezzi”), non mette in scena ricatti per mezzo delle sue nevrosi (“Hollywood Ending, Basta che funzioni”), non usa la sua intelligenza per tiranneggiare gli altri , ma per farseli amici. E’ un personaggio “romantico” spesso un po’ ingenuo, che soffre, ma non contraddice mai se stesso. Che è tradito e deluso dagli altri, dalla vita, dall’amore, dalla Cafe society. E’ poetico (come gli dirà Veronica in una scena del film). Per questi motivi e’ più vicino al protagonista di “Midnight in Paris”.
Come in quel film si ragiona sulla nostalgia del passato (lì si trattava della “mitica età dell’oro”), ma qui la riflessione è più sfaccettata, più profonda e malinconica, perché non vi sono personaggi negativi che deridono o maltrattano il protagonista, con i quali sarebbe facile prendersela. L’infelicità di fondo è data dalla vita stessa, con le sue scelte obbligate, i suoi bivi e i suoi sbagli. Non resta che il rimpianto e la consapevolezza che ciò che non è stato vissuto, lo si puo’ vivere soltanto attraverso i propri sogni.