Euro and Pound banknotes are seen in front of BREXIT letters in this picture illustration taken April 28, 2017. REUTERS/Dado Ruvic/Illustration

Brexit sì, ma non con le tasse dei miliardari inglesi

Lo zio Paperone inglese si chiama Jim Ratcliffe: è l’uomo più ricco del Regno Unito, possiede la compagnia chimica Ineos (recentemente valutata 35 miliardi di sterline) e l’anno scorso ha ricevuto dalla regina Elisabetta il Knight Bachelor, l’onorificenza che gli permette di aggiungere al suo nome l’appellativo di sir. Amante della patria, tanto da esporsi in prima persona durante il referendum sulla Brexit. Affermava che il Regno Unito ce l’avrebbe fatta benissimo senza l’Unione europea e ne era strenuamente convinto. Tanto convinto che ha deciso di trasferirsi all’estero, precisamente nel Principato di Monaco. Una mossa che gli consentirà di pagare meno tasse e risparmiare così qualcosina come 4 miliardi di sterline.

Sir Ratcliffe è l’emblema dell’uomo che si è fatto da sé: nato in una famiglia umile (padre falegname, mamma contabile), si laurea alla London Business School in ingegneria chimica. La fortuna gli arride quando fonda la sua compagnia – appunto la Ineos – la più grande azienda privata inglese. Posti di lavoro e benessere per il popolo inglese: la ricetta più indicata per diventare un buon patriota. Mancava solo un ingrediente, ossia l’impegno politico, che ha saputo aggiungere proprio durante la campagna referendaria sulla Brexit. Schierato a favore del “leave”, aveva addirittura sostenuto economicamente la campagna pro Brexit. Per questo motivo la decisione di trasferirsi nel Principato, per molti leavers inglesi, è sembrata un tradimento da parte di Ratcliffe.

Ma lui non è certo l’unico inglese ricco che, per evitare di destinare una parte più grande del proprio patrimonio al fisco, decide di trasferire residenza e/o attività economica all’estero. Al contrario, molti suoi colleghi lo hanno preceduto o seguito in questa scelta. Fra gli altri, Jacob Rees-Mogg, politico conservatore britannico diventato famoso fra i parlamentari inglesi proprio per il suo euroscetticismo. Lo scorso anno, assieme agli altri soci della sua compagnia – la Somerset Investment Capital – ha deciso di aprire un fondo a Dublino. La capitale irlandese è notoriamente considerata un paradiso fiscale; inoltre, il nuovo fondo sarà sottoposto a leggi irlandesi ed ovviamente europee. Il motivo di tale scelta? L’incertezza che ha colpito le imprese inglesi l’indomani del voto sulla Brexit spingeva gli investitori a spostare capitali ed interessi altrove, possibilmente in un Paese ancora membro dell’UE e che permettesse di avere vantaggi fiscali.

Recentemente, Rees-Mogg è stato accusato di ipocrisia dopo aver pubblicato un tweet in cui affermava che “quando un investitore è stanco di Londra è stanco della vita”. Un’affermazione che evidentemente stride con le sue azioni e ancor più con le giustificazioni che addusse dopo il trasferimento a Dublino. Tuttavia, non si possono certo condannare uomini d’affari che, razionalmente, scelgono di andare dove i costi ed i rischi sono inferiori. Restano gli interrogativi che li spinsero a sposare, allora, la causa della Brexit, dal momento che l’alternativa da loro sostenuta già si ipotizzava avrebbe danneggiato le imprese inglesi.

Gli animi romantici sperano nella convinzione e nell’ardore politico. Quelli più realisti invece cercano una risposta anche nelle effettive o presunte irregolarità che hanno caratterizzato la campagna pro Brexit. I maggiori gruppi di sostegno del leave, infatti, hanno ecceduto i limiti di spesa per le campagne referendarie. Inoltre, alcuni dei principali sostenitori e donatori di questi gruppi non hanno saputo giustificare l’impiego delle ingenti risorse finanziarie e sono finiti nei guai anche per i frequenti contatti, prima del voto, con diplomatici russi.

Nel frattempo, i tempi stringono ma l’accordo sull’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea è ancora fermo, in una fase di stallo. Da un lato il parlamento inglese è bloccato dagli oppositori di Theresa May, che puntano ad un’uscita senza accordo piuttosto che ad un accordo con clausole sfavorevoli alla Gran Bretagna. Dall’altro, fonti diplomatiche europee ipotizzano un congelamento della procedura di recesso fino al 2021. Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea, non è però affatto ottimista e prevede che sia molto più probabile un’uscita della Gran Bretagna senza un accordo.

Emilia Granito