Credit: zonedombratv.it

Come la società condanna al suicidio

Di Domenico Arcudi per Social Up!

Il tema del suicidio, in un contesto caratterizzato dalla paura come quello del CoViD-19, è un cliché: la Link Campus University, nell’ultima indagine, ha rilevato un aumento esponenziale di suicidi riguardanti motivi economici; un numero considerevole riguarda giovani che hanno perso il lavoro, convinti di non avere alcuna speranza di ripresa.

Cos’è che spinge le persone al suicidio? Tante sono le spiegazioni applicabili, a seconda della chiave di lettura che si vuole adoperare; esse spaziano dalla psicologia alla sociologia e possono essere adoperate contemporaneamente, in quanto offrono una visione completa del problema.

Nel campo della sociologia, Émile Durkheim (1859-1918) scrive un saggio intitolato “Il suicidio” (1897), definendo quattro tipologie di suicidio: tra queste, quella di un giovane che si sente inadatto a causa della carenza/deteriorazione di rapporti che lo legano alla società (lavoro, famiglia, amicizie et cetera) rientra nel c.d. “suicidio egoistico”; per cui il suicidio è un “fatto originato dalla società”. Un esempio pratico va individuato nei fatti sociali (tra questi, i motivi economici), che possono talvolta influire sulla struttura psicologica della persona.

Per quanto concerne la psicologia (e i disturbi psichiatrici), il suicidio è scaturito dai disturbi quali depressione o il disturbo di personalità borderline; essi possono essere singoli o presentarsi in comorbidità con altri disturbi (la schizofrenia, ad esempio, può predisporre alla depressione). Il termine “depressione” risulta generalista in ambito diagnostico psichiatrico; rientra nel DSM (il manuale dei disturbi mentali, per intenderci) in quelli che sono i disturbi depressivi, rientranti a loro volta nei disturbi dell’umore. Nei disturbi depressivi rientrano il disturbo depressivo maggiore, il disturbo depressivo persistente e i disturbi non specificati.  Le tendenze suicidarie legate al disturbo borderline, invece, dipendono da comportamenti autolesionistici e abuso di sostanze (alcool, droghe), che possono compromettere la salute del paziente e portarlo alla morte; oppure il non aver superato un trauma (abuso sessuale, tra questi). 

Nonostante esistano terapie, teorie e definizioni eziologiche, il suicidio resta ancora un problema persistente del nostro tessuto sociale; ciò avviene perché, in una società che reprime ad ogni costo il fallimento (o prova a sdoganarlo), i più sono convinti che il “fallito” (categoria in cui sembra che rientri colui che ha perso il lavoro) vada escluso e stigmatizzato come tale, posto al pubblico ludibrio come il bambino messo all’angolo, in ginocchio sui ceci e privato della sua autostima. 

redazione