Wilma Rudolph: tre ori come stelle dopo lacrime sulla pelle

Qualche raggio di sole alitava ancora sui tetti di una città avvolta nella sua tarda estate. Sembrava uno di quei soliti pomeriggi in cui Roma si crogiolava nella sua dorata lentezza per poi riflettersi vanitosa sullo specchio di un’appariscente vetrina: quella di un’epoca leggendaria chiamata Dolce Vita. Sul levigato scenario naturale di Via Veneto, quella languida atmosfera si trasformava nella surreale magia giornaliera che intrecciava ambienti, persone e cose. Era tutto un pulsare di soffuse sonorità che rimbalzavano da un edificio all’altro, tutt’attorno accompagnando il blando ritmo del traffico. Erano anche gli sbadiglianti inservienti a muoversi a tono e che, in attesa di rumorosi clienti, già schieravano a bell’apposta i tavolini dei bar dentro i quali stavano ritti in parata, come lampeggianti robot, tanti Juke-box in attesa di scaricare una miriade di note in cambio di una semplice monetina.

Vibravano impercettibilmente adagiati su soffici tovaglie, trasparenti bicchieri a calice aspettando di tintinnare tra loro. Si ritrovavano colà alla spicciolata, attratti dall’ago di un’immaginaria calamita comune, alcuni blasonati rampolli annoiati, pronti a organizzare, negli stessi soliti posti, festini sempre uguali. Sistemate alla bisogna e parcheggiate a ridosso dei marciapiedi, sostavano auto di qualunque specie, pronte e accoglienti per scarrozzare personaggi più o meno noti. A portata di piede rombanti motorette, appoggiate sui cavalletti, lasciavano immaginare movimentati caroselli poiché guidate da tanti paparazzi in cerca di scatti clamorosi.


D’improvviso invece, prima del calar della sera, in quel 25-08-1960, la rarefatta atmosfera sovrastante, la calma sonnolenta di quelle ore fu interrotta da un lungo fremito e l’Urbe scossa e percorsa da una ventata di energia pura, si scrollò l’abituale e innata indolenza: lo stadio Olimpico brulicante di folla, lampeggiante di colori e rimbombante di suoni, accoglieva la sfilata delle squadre provenienti da quasi tutto il mondo per la cerimonia inaugurale dei giochi della XVII Olimpiade moderna.
Si accendeva la fiamma del tripode e le sue guizzanti lingue di fuoco celebravano l’inizio di quella che sarebbe stata l’ultima romantica manifestazione sportiva a misura d’uomo: gli ultimi fuochi di quel piccolo mondo antico creato da De Coubertin che in poco tempo sarebbe lievitato a dismisura cambiando per sempre la sua fisionomia.

Dietro al portabandiera dello squadrone USA, l’imponente decatleta Rafer Johnson, s’intravedeva appena, allegra e giuliva anche la piccola Wilma Rudolph: una giovane velocista le cui ambizioni erano pari alla sua fiducia dopo il bronzo vinto nella staffetta veloce a Melbourne nel 1956. Già assaporava quella ragazza dal carattere di ferro, l’irrefrenabile gioia di chi grazie alla volontà è consapevole di giocarsi alla pari le possibilità di successo e quindi considerava la sua partecipazione, una rivincita sui tragici imprevisti della vita: colpita dalla poliomelite da bambina rischiò di rimanere per sempre zoppa alla gamba sinistra.

Una famiglia unita la sua, capace di resistere ai rigurgiti d’un razzismo strisciante che a Saint Bethlehem nel Tennessee, dov’era nata nel 1940 incombeva ancora di più come in tutti gli Stati del Sud. Una famiglia povera che seppe però, sostenere con amorevoli cure la sfortunata ragazzina cui tutti i suoi elementi, a sera massaggiavano a turno questa gamba tormentata dal pesante apparecchio correttivo e talvolta stanca per la fatica di raggiungere due volte la settimana l’ospedale dei negri, lontano ben ottanta chilometri dal suo paese natio.

Il 2 di settembre, Wilma leggera come un refolo di ponentino, vinse la finale dei 100 metri piani. S’impose, svolazzando agilmente anche sulla doppia distanza tre giorni dopo. Terminò il suo straordinario trittico tra le corsie settantadue ore dopo in trionfo, trascinando con la consueta scioltezza la staffetta 4×100 statunitense alla vittoria. Prestazioni arricchite da record mondiali e olimpici ottenuti e sfiorati a celebrare l’assoluta eccellenza di un’atleta dalla corsa elegante: non aggrediva la pista, la accarezzava con la sua particolare andatura, scivolava via come su una lastra di ghiaccio e sembrava spezzare ogni volta al traguardo, quel filo di lana come a ribaltare un destino già scritto.I giornali dell’epoca, per opera dei paparazzi, sempre pronti a creare personaggi, inventare situazioni e/o ingigantire fatti, quella volta a ragione, affibbiarono alla gazzella nera, soprannome suggerito dal suo leggiadro modo di correre, un idillio più che un flirt con un altro velocista, l’italiano Livio Berruti vincitore anch’esso dell’oro olimpico. Sia come sia, l’imponente figura di Cassius Clay troncò sul nascere quella tenera simpatia.
Ritornò in patria come un’eroina, i negri se vincevano davano lustro, e continuò l’attività agonistica con l’eccellente risultato di stabilire l’anno dopo il nuovo record mondiale 11.2 sui 100 metri. Nel 1962 appese le scarpette al chiodo si fece una famiglia e rimase nell’ambito dell’atletica leggera per alcuni anni come allenatrice e poi come opinionista sportiva.

Una campionessa umile e modesta che, all’apice della sua celebrità, si ricordava sempre della sua indomita volontà di superare ostacoli e traversie come peraltro scrisse nella sua autobiografia:” Penso che in quei momenti difficili ho cominciato a formarmi lo spirito competitivo necessario per vincere nello sport”.
Wilma Rudolph, è stata frettolosamente dimenticata senza aspettare che l’inesorabile scorrere del tempo ingiallisse, oltre che quella sportiva, la sua nitida figura umana.
La sua ultima gara risale a ventidue anni fa, quando, purtroppo, fu prima raggiunta e poi sorpassata, sul filo di lana della vita, dalla morte che le correva accanto sulla corsia del destino: un avversario imbattibile e inesorabile contro cui non poteva competere, perché con una prestazione vietata a lei umana, le rubò il tempo di vivere.
Lassù, tra le corsie del blu dipinto di blu come quasi tutti i carissimi estinti della sua razza forse intona gloriosamente uno spiritual dopo l’altro, ma sicuramente nello stesso tempo le sue gambe corrono gioiosamente per i pascoli dell’aldilà.

Vincenzo Filippo Bumbica