Professione? Geisha!

Figura al confine tra realtà e immaginazione, carne e spirito, verità e finzione,  purezza e sensualità, le Geisha hanno da sempre esercitato nel  mondo orientale e via via anche in quello occidentale un fascino del tutto particolare.

In giapponese 芸者, “sha” significa persona, “gei” significa artista; sono le “donne d’arte” che nel 1600, con le loro movenze delicate e la loro bellezza senza tempo, diventarono le vere intrattenitrici del pubblico maschile, sostituendosi ai “giullari” chiamati a far divertire gli invitati alle feste. Tradizionalmente le geishe cominciavano il loro severissimo apprendimento in giovane età, spesso vendute alle case di convivenza chiamate okiya, oppure predestinate per portare avanti la tradizione di famiglia

La vita nell’ okiya era dettata da una severa gerarchia; le fanciulle dovevano attraversare varie fasi, sotto il controllo rigoroso della oka-san, la proprietaria della casa di geisha.

Le giovani appena arrivate nell’okiya lavoravano sostanzialmente come domestiche, per forgiare il carattere; all’ultima arrivata spettava il compito di attendere che tutte le geisha fossero tornate dai loro appuntamenti fino a notte fonda per aiutarle a togliere le zori (sandali abitualmente portati con le tabi, le calze di seta), svestirle dei numerosi strati di vestiti, aiutarle a struccarsi e accompagnarle a dormire quando alle feste avevano bevuto troppo sake. Durante questo periodo di apprendistato la shikomi poteva cominciare a frequentare le classi dove imparare le abilità di cui, diventata geisha, sarebbe dovuta essere maestra: suonare lo shamisen, uno strumento simile a un liuto, cantare, eseguire le danze tradizionali con grazia ed eleganza,  creare composizioni floreali e raffinare la calligrafia. Particolare rilievo aveva lo studio della preparazione del tè, bevanda che andava servita sotto gli occhi degli ospiti secondo un rituale complesso e affascinante.

Le geishe erano anche donne molto colte perché dovevano imparare nozioni di poesia e di letteratura per intrattenere i clienti con conversazioni adeguate. Appena acquisite le competenze necessarie, il giorno prima di fare il Misedashi, il debutto come maiko, toccava la “cerimonia di sorellanza” con una maiko già esperta, dalla quale imparare accompagnandola alle feste e facendosi così conoscere tra la clientela. In questa fase la giovane abbandona il semplice kimono di cotone e ne indossa uno di più pregiato, comincia a truccarsi e a pettinarsi come un’aspirante geisha.

Arrivate a questo punto le geisha solitamente cambiavano il proprio nome con un “nome d’arte” che doveva contenere la parte iniziale del proprio nome e una parte scelta dalla “sorellastra”, che le si addicesse.

Non è per una geisha desiderare. Non è per una geisha provare sentimenti. La geisha è un’artista del mondo, che fluttua, danza, canta, vi intrattiene. Tutto quello che volete. Il resto è ombra. Il resto è segreto.”

(“Memorie di una geisha”, 2005)

Il periodo di apprendistato delle maiko e il passaggio, ultimo, per diventare geisha era segnato da  due riti molto importanti, il Mizuage  (lett. sollevare le acque, in pratica la perdita della verginità) e l’Erikae (cambio del collare).

Una maiko era e doveva assolutamente restare vergine fino alla fine del suo apprendistato in attesa che un “defloratore” si offrisse per il suo Mizuage, così segnare il suo passaggio all’età adulta. Appena ci si avvicinava al momento fatidico, si apriva una sorta di asta tra i pretendenti, vinta dal miglior offerente; il Mizuage era anche un modo per ripagare parte dei debiti che le apprendiste avevano accumulato nei confronti dell’okiya che fino ad ora aveva investito per la loro istruzione.

Se una giovane non riceveva proposte, affinché non venisse derisa e sminuita dalla comunità, intervenivano i “defloratori professionisti”, uomini noti nella comunità come amanti delle maiko ma non così ricchi da poter ambire al Mizuage di una maiko di successo.

Spesso il defloratore coincideva con il danna, ossia l’uomo, solitamente ricco e molto più vecchio, che si offriva di mantenerla e di farla vivere nel benessere. Il rapporto tra geisha e danna è molto complesso e oscuro anche ai giapponesi stessi; spesso accadeva che questo patrono era sposato con un altra donna ma si prendeva l’onere di soddisfare tutti i desideri della sua geisha. Il danna doveva sostenete enormi spese, in particolare per i lussuosi e costosi kimono, poiché una geisha non poteva mostrarsi in pubblico mai più di due volte con la stessa mise. Viene da domandarsi come mai questo rapporto non diventi anche un legame sentimentale, tuttavia è intuibile che per un uomo non è facile sostenere una relazione con una incantatrice di uomini a tempo pieno… Infatti non è raro che una geisha abbandoni il suo lavoro per dedicarsi alla sua vita matrimoniale.

Erikae significa letteralmente cambio del collare (da rosso a bianco) e rappresentava, insieme al Mizuage, il passaggio all’età adulta, anche se in realtà sono molte le cose che cambiano nell’abbigliamento da maiko a geisha, non solo il collare; il trucco si faceva più leggero, i colori degli abiti meno sgargianti, l’acconciatura cambiava e diventava meno elaborata e più elegante.

In quanto geisha a tutti gli effetti, la giovane donna cominciava ora a essere retribuita per il tempo trascorso ad intrattenere gli ospiti che lo desideravano; tanto più era famosa e desiderata, tanto più guadagnava. Il tempo che viene loro pagato è misurato in base a quanti bastoncini di incenso bruciano durante la loro performance, chiamato senkōdai (線香代?) cioè compenso del bastoncino d’incenso. Per gran parte della vita le geishe rimanevano vincolate economicamente all’okiya della loro infanzia, in quanto l’addestramento per diventare geisha era  molto oneroso e la casa si accollava le spese delle sue ragazze a patto che queste, lavorando, ripagassero il loro debito. Queste somme erano spesso ingenti e a volte le geisha non riuscivano mai a ripagare gli okiya.

Nei periodi più recenti la cultura e l’ideologia occidentale hanno invaso il Giappone; inizialmente la figura della geisha ha provato a modernizzarsi con il resto della società, ma il rischio della perdita della vera cultura secolare collegata ha fatto in modo che, dopo la II guerra mondiale, la Geisha si riavvicinasse alle vecchie usanze ma con uno scopo maggiormente connesso al mantenimento delle arti di canto e recitazione teatrale tradizionale giapponese.

 Oggi le geisha hanno quasi del tutto abbandonato le case da te e l’intrattenimento degli uomini d’affari per non confondersi con prostitute giapponesi che si definiscono geisha, infangandone la tradizione ad esse connessa. Il parallelismo tra geisha e prostituta nasce durante l’occupazione americana; i militari si riferivano alle prostitute chiamandole girlsha, cercando di inglesizzare la parola geisha, mentre le donne che concedevano favori sessuali in cambio di denaro erano le cosiddette oiran. Inoltre nella cultura cinese la parola geisha è tradotta con il termine yì jì (艺妓), dove (妓) ha il significato proprio di “prostituta”.

Come le geisha queste portano elaborate acconciature e tingono il viso di bianco; uno dei modi per cui si poteva facilmente distinguere era il modo in cui veniva indossato l’obi, la larga cintura che veniva avvolta in vita al di sopra del kimono, finendo con un vistoso fiocco. Le geishe portavano il nodo finale dietro la schiena,aiutate dalle apprendiste, mentre le prostitute per “praticità” legavano l’obi per davanti, in quanto in una giornata avrebbero dovuto scioglierlo più e più volte.

Il mondo delle geisha è senza dubbio difficile da comprendere ed afferrare nella sua integrità dal mondo occidentale; a gettare luce su questo microcosmo fu la famosissima  geisha Mineko Iwasaki, una delle donne intervistate da Arthur Golden per scrivere Memorie di una Geisha (un libro del 1997) , la quale si era esibita anche per il Principe Carlo e la Regina Elisabetta II. E si era ritirata all’apice della propria carriera, all’età di soli 29 anni.

Oggi le geishe esistono ancora e vivono  insieme in okiya tutte al femminile, ma la loro è una scelta più che consapevole; dopo aver terminato l’istruzione obbligatoria, decidono di intraprendere questa carriera da adulte.

Se negli anni ’20 del secolo scorso se ne contavano circa 80mila in attività, oggi non superano le duemila: la loro attività è andata perdendo di interesse nel tempo e resta legata al turismo o ai party per i quali vengono ingaggiate.

Lucrezia Vardanega