Paul Newman: lo spaccone dal viso d’angelo

Quel volto levigato dai lineamenti delicati che sprigionava dagli occhi intinti di color cobalto bagliori illuminanti rivelava, di sguincio, un profilo perfetto poiché dolce e appena disegnato. Se questa immagine non si fosse animata nella recitazione pulsante di una propria espressività, accentuata da un aperto sorriso tra il disarmante e l’ironico, sarebbe stato lo stereotipo fotografico di uno dei tanti bellocci aspiranti attori che gravavano nell’orbita del pianeta cinema. E invece le attraenti sembianze di quell’uomo, accoppiate all’eccezionale connubio tra il linguaggio del corpo e la flessibilità della  voce, furono vincenti anche perché eccellente risultato dell’esistenziale intensità artistica che caratterizzava lui e quasi tutti i figli della famosa accademia cinematografica Actor’s Studio di New York: Marlon Brando e Montgomery Clift, in testa.

Così nel 1954 il ventinovenne Paul Newman, approdato tra le sinuose rive della seducente Hollywood, si rese conto che la ribollente Mecca del cinema, bagnata dagli alti cavalloni di un oceano schiumante, non era per niente la natia Shaker Heights lambita dalle acque appena increspate del lago Erie e neanche assomigliava da lontano all’ondeggiante New York con il malinconico sibilare delle sirene nel suo teatrale porto. In quel nuovo sofisticato e imbellettato ambiente doveva quindi a ogni costo essere subito protagonista per conquistarsi il cielo e guadagnarsi il sole.
Consapevole di quanto un artista debba rifuggire da una vita in attesa tipica dell’impiegato che era stato nella ditta del padre, il baldo Paul afferrò in corsa il primo treno che passava e non si accorse che era sbuffante e arrugginito tale da portare stancamente la sua parte di protagonista. Il risultato fu che il film Il calice d’argento, sebbene un cast di primo piano: Anna Maria Pierangeli, Virginia Mayo, Jack Palance e Natalie Wood tra gli altri, affogò nella sua mediocrità e questo rese il suo insulso ruolo ancor più suscettibile a critiche tutt’altro che benevole, considerato anche lo sfarzoso progetto della produzione di girarlo a colori.
Due anni dopo il suo clic recitativo scattò in bianconero con la storia di un personaggio fumantino, verace e coraggioso: il pugile Rocky Graziano di Lassù qualcuno mi ama. Il conseguente successo immediato di critica e pubblico lo impose all’attenzione generale riscattandone le credenziali.
Da quel momento comincia la sua vera carriera: in un caleidoscopico intreccio di ruoli fra loro tanto diversi legati, però da un sottile filo comune, emerge quello dell’uomo contro che nonostante una nascosta fragilità si batte per un suo personale senso di giustizia nella speranza di affermare la propria identità contro le rigide convenzioni sociali. Come le ciliegie, un personaggio tira l’altro e sul set senza soluzione di continuità dal 1958 in poi si sviluppano varie vicende cinematografiche: con la sopraffina regia di Arthur Penn ecco Billy the Kid, il nevrotico, tormentato e incompreso pistolero di Furia selvaggia; il classico Richard Brooks gli affida la parte del disadattato Brick, in La gatta sul tetto che scotta, incallito alcolista per dimenticare il fallimento di una vita nonostante che la moglie Maggie (una smagliante Elizabeth Taylor), tenti di sedurlo per riconquistarlo; mentre il veterano Sherman lo ritiene a ragione perfetto nel ruolo speranzoso più che mai dell’idealista Anthony ne I segreti di Filadelfia.

Ormai star indiscussa Newman inaugura i fragorosi anni sessanta con l’incisiva interpretazione del coraggioso Ari Ben Canaan in Exodus e soprattutto incanta, seduce e commuove impersonando il vulnerabile Eddie Felson detto Lo spaccone, che baratta oltre la sua dignità, il difficile amore che però gli rende accettabile l’esistenza, per la smania di riscattare se stesso con l’abilità nel gioco.
Riceve così la sua seconda nomination all’Oscar come attore protagonista, dopo la Gatta sul tetto che scotta e qualche anno dopo ne colleziona un’altra per l’ineguagliabile rappresentazione del cinico egoista e impunito cow boy moderno Hud il selvaggio.
I titoli e i ruoli ormai non si contano più e mentre nel 1967 riceve l’ennesima nomination per la splendida rivisitazione dell’irriverente e indomabile galeotto nel film Nick mano fredda, lucida denuncia di un sistema giudiziario che invece di redimere commina violenza gratuita. Quest’altro negato, ma meritato riconoscimento aveva invece già premiato la splendida moglie Joanne Woodward, qualche anno prima.
In coppia con lei sposata nel 1958, gira alcuni film di diverso contenuto sociale con delicati sviluppi sentimentali e psicologici: i due iniziano con La lunga estate calda, dove lo sfrontato e ambizioso Ben Quick con la sua faccia da schiaffi irretisce un’eterea e inquieta maestrina che poi si lascia conquistare dal fascino irresistibile di quel furfante con la nomea d’incendiario; continuano con Dalla terrazza e stavolta illustrano la contraddittoria realtà di quegli anni meravigliosi per cui Alfred Eaton, l’onesto e disilluso ingegnere tradito dall’annoiata e capricciosa moglie incapace di qualsiasi sacrificio è premiato solo da un incontro fatale; s’incontrano per caso a Parigi e respirano soffi di vitale esistenzialismo attraverso la musica in Paris Blues e infine teneri coniugi raccolgono con dignità i cocci della vita in Mr & Mrs Bridges.
Fra queste intensi duetti, s’incastrano perfettamente altri film: Hombre di Martin Ritt, racconta l’inutile sacrificio del fiero mezzosangue John Russel e il violento Sfida senza paura,dove Paul cura la regia, che tratta il tema del lavoro come affermazione totale con il comportamento asociale della famiglia Stamper il cui capostipite Henry(Henry Fonda), spietato e risoluto è spallegiato degnamente dal figlio Hank.

L’ironia, il gioco delle parti e l’esperienza del vissuto contraddistinguono ancora i suoi film e tratteggiano figure singolari: l’ineffabile rapinatore di treni Butch Cassidy; il gaglioffo baro Henry Gondorff de La stangata, il disincantato detective di Lou Harper, l’inflessibile giudice Roy Bean de L’uomo dai sette capestri, e lo scout in crisi d’identità nel dissacrante Buffalo Bill e gli indiani.
Scendendo l’ombra della sera nella sua età, impersona ingrigite ma ancora sfaccettate figure di uomini maturi. Eccolo in Bronx 44 distretto; Diritto di cronaca; Il verdetto; e Harry e Son, per raggiungere dopo quello alla carriera, l’Oscar consolatorio nel 1987 per  Il colore dei soldi, lo sbiadito sequel a rinverdire le gesta del suo personaggio più carismatico, il suo marchio di fabbrica: l’indimenticabile spaccone Eddie Felson.
Negli anni novanta ormai in fase calante lascia i suoi ultimi guizzi: in La vita a modo mio bacia senza alcun complesso Melanie Griffith più giovane di oltre quarant’anni, caratterizza il triste padre di Kevin Costner ne Le parole che non ti ho detto e non sfigura affatto nudo al cospetto di Susan Sarandon in Twlight.
Si spegne cinematograficamente nel ruolo d’un gangster atipico con l’anima foderata di marmo in Era mio padre del 2002, mentre per il suo interruttore biologico il clic scatta sei anni dopo, nel 2008.
Paul Newman, per circa mezzo secolo, è stato per il cinema un quadro vivente della bellezza al cui mutare egli ha sempre saputo incorniciare i ruoli adatti che hanno acceso di una risplendente luce la sua leggendaria carriera. Inoltre era un uomo colto, generoso e serio: amava il suo lavoro, il brivido della velocità e adorava la sua donna, la fedele, intelligente e raffinata Joanne. Questo inestricabile legame, per uno bello come lui che poteva facilmente cadere in tentazione, aveva la sua radice: perenne soggetto e oggetto di desiderio femminile non si volle mai sprecare in facili avventure con altre donne. In fondo chi sta bene con la propria è perché in essa le ama tutte.

Vincenzo Filippo Bumbica