Miti dello Sport – Mennea, la disfida del ragazzo di Barletta

Quindici anni sono l’età del sorriso. Esso non disegnava però, il volto spigoloso di quel giovane dalla mascella volitiva. C’era invece, una strana espressione nei suoi occhi che accentuava un ghigno furente di soddisfazione, quando cominciò a battere sui cinquanta metri di corsa, auto e motorette d’ogni tipo e cilindrata.

Torvo, diffidente e orgoglioso, dal carattere aggrovigliato come i tronchi degli ulivi tipici del meridione, Pietro Paolo Mennea lanciò il suo primo guanto di sfida alla vita occupando la sua prima corsia in quello stradone di Barletta, dove era nato nel 1952.

Era nato per correre e ben presto trasferì armi e bagagli nel centro federale di atletica a Formia: doveva allenare nella fatica il suo talento per alimentare il fuoco sacro di chi non aveva niente e voleva tutto.

Da quell’anno di grazia del 1971, coltivando la sua solitudine come un fiore e a prezzo di sacrifici degni di un fachiro, cronometro alla mano i risultati poco a poco si fecero prima confortanti e poi convincenti, sopratutto sui duecento metri piani, dove il suo modo di affrontare la curva lo proiettava diretto come un treno sul rettilineo finale. Fu così che si meritò l’appellativo di Freccia del sud.

Il convoglio imbroccò il binario giusto, quello dell’alta velocità, un giorno di settembre del 1979. Alle Universiadi di Città del Messico, uno sbuffante Mennea in piena progressione recise il filo di lana del traguardo stabilendo il record del mondo della specialità: 19,72.

Un tempo stratosferico proibito per diciassette anni, anche agli inarrivabili velocisti neri, fossero pure statunitensi o caraibici.

A livello europeo invece per affermare la sua leadership, il prode barlettano dovette confrontarsi seppure in modi e momenti diversi con quelli che vantavano i titoli per essere considerati i tre tenori bianchi della velocità.

Del primo aleggiava nell’ambiente l’ombra di un passato glorioso celebrato da un oro olimpico nella stessa specialità che diventava un paragone ancor più scomodo poiché suo connazionale. Un mito dello sprint tricolore che aveva le gentili sembianze di Livio Berruti, un dandy torinese con l’erre moscia e la lingua lunga. Tra i due che più diversi non potevano essere, volarono più di una volta gli stracci polemici di una rivalità indiretta.

Dell’altro si erano spenti da poco gli ultimi fuochi della carriera. Era un fuoriclasse, il velocista bionico di Santa madre Russia Valery Borzov, suo rivale storico nei primi anni settanta che vinse a mani basse, cento e duecento metri, alle Olimpiadi di Monaco di Baviera.

Il terzo uomo rappresentava il suo futuro prossimo che lo aspettava, petto in fuori, alle Olimpiadi Sovietiche dove annunciava la sua minacciosa figura: era l’ingombrante toro scatenato gallese Alan Wells. L’assenza per ragioni politiche degli americani divenne un’occasione troppo ghiotta per questo emergente sprinter che, infatti, confermò il pronostico aggiudicandosi l’alloro sulla breve distanza. Non fu dunque una sua pazza idea quella di far saltare il banco anche nella doppia distanza. Approdò disinvolto in finale assieme agli altri due favoriti: il fosforescente giamaicano Donald Quarrie, campione in carica e lo scalpitante purosangue italiano che il sorteggio confinò in ottava corsia.

Il vento era andato a dormire presto nell’umida serata del 28 luglio del 1980, quando alle 20,10 l’outsider cubano Silvio Leonard, argento al collo sulla breve distanza, mise in moto la sua flessuosa falcata anticipando tutti. Subito la possente sagoma del britannico, dipinta di bianco con due strisce orizzontali rosso e blu, si pose all’inseguimento del caraibico. I due erano davanti, ma improvvisamente allo sbocco di quel raggio di pista che anticipa il rettilineo, mentre l’altro figlio delle Antille colorato di giallo, si faceva largo dalle corsie centrali per ghermire il podio, avvenne una magia stupefacente: quell’omino con la canottiera azzurra aumentò la sua frequenza di corsa e un metro dopo l’altro recuperò il consistente svantaggio, sorpassando per due centesimi di secondo l’ancora ingobbito e stupefatto suddito di sua maestà.

Pietro Mennea volò leggero e planò sul traguardo come una splendida farfalla dalle ali d’oro sul cielo di Mosca.

Quel sensazionale capolavoro figlio della feroce determinazione che animava l’impavido uomo del sud, rimase impresso nella retina di milioni d’italiani, tracciando un solco perenne nella storia della nostra atletica.

In un sol colpo si mise tutti alle spalle e tutto davanti giacché conservava intatto il gusto della sfida nei suoi confronti prima di quello degli altri. La sua longevità divenne un ritorno al futuro che gli permise di stabilire un inconsueto record: 14,8 sui centocinquanta metri ancora imbattuto e di figurare dignitosamente in altre due edizioni olimpiche, l’ultima a Seul nel 1988, che fanno cinque a chiudere con questo incredibile primato la sua strabiliante carriera.

Avvenimenti, luoghi, avversari, vittorie, record, tempi, cifre e numeri di gara sono tangibili segnali di una presenza nella disciplina sportiva che ha pochi eguali considerando il suo palmares in cui spicca la firma dorata del più forte velocista italiano di tutti i tempi e in assoluto uno dei più grandi di sempre.

L’immortalità sportiva però non gli bastava perché in fondo il suo mestiere era di vivere la vita con la stessa voglia di quando era un ragazzo che sfidava i motori e perciò continuò nella sua corsa infinita raggiungendo fino a quattro lauree, che gli consentirono un impegno anche nel sociale con la stessa partecipazione emotiva che l’aveva sempre contraddistinto.

Le ultime immagini raffigurano in abiti civili il Dottor Pietro Paolo Mennea impegnato a scalare anche quest’altra collina della sua vita, ignaro che dietro di essa purtroppo si nascondeva la morte crucca e assassina che riuscì a fermare il tempo cronometrico ma non quello eterno de suol ricordo.

Svetta lassù, nell’immaginario collettivo la sua indimenticabile icona con quel ditino alzato come simbolo di vittoria per celebrare la normalità del potere di un uomo con un grande cuore.

Vincenzo Filippo Bumbica