#MeToo: mai più vergognarsi di un abuso subito

La campagna condotta nel segno dell’hashtag #MeToo (“Anch’io”, affiancato in Italia a #Quellavoltache) sta portando avanti una missione piuttosto semplice: condividere storie personali di molestie subite per lacerare il velo di vergogna e normalizzazione che copre la natura endemica del problema e la sua diffusione enorme.

Chi partecipa condivide l’hashtag accompagnato, di solito, dal racconto delle molestie subite. Tutto questo dà seguito al caso Weinstein, che ha visto il produttore hollywoodiano sepolto dalle accuse di violenze rimaste sotto la superficie a lungo come open secret, un “segreto aperto” di cui, nell’ambiente, tutti erano almeno un po’ a conoscenza, ma di cui nessuno aveva la benché minima intenzione di parlare.

Weinstein non è certo il primo esempio simile, neanche in tempi recenti: accuse analoghe sono arrivate al celebre ex conduttore di Fox News Bill O’ Reilly e al Presidente degli Stati Uniti in persona, Donald Trump, per citarne due.

Violenze, molestie, estorsioni e ricatti di natura sessuale condotti ai danni di giovani donne da uomini di potere: si tratta di un copione troppo ricorrente – e troppo frequentemente riconfermato – per rappresentare una mera coincidenza impossibile da prevedere o da evitare.

Il silenzio delle vittime, a sua volta, non è una novità o un caso ma un preciso modello di comportamento e pensiero che viene imposto loro, più o meno esplicitamente, per evitare l’ira del “titano” di turno.

Proprio questo modello viene attaccato dall’iniziativa #MeToo, per sdoganare la verità delle molestie sessuali e la loro pervasività, anche al di fuori degli ambienti altolocati da cui provengono gli ultimi scandali.

Alla miriade di donne si sono aggiunti anche molti partecipanti di sesso maschile, che hanno superato un diverso tipo di costrizione e imbarazzo per confessare di aver subito violenze.

In altri – troppo pochi – casi, gli autori pentiti di molestie si sono fatti avanti per confessare #IHave (“L’ho fatto”) e mostrare come sia possibile superare la disgustosa abitudine all’abuso, anziché nasconderla intatta in un angolo delle menti individuali e dei discorsi pubblici.

Non sono mancate le critiche: da “Ma non potevano provocare di meno?”, un classico del victim blaming (“Incolpare la vittima”), al più articolato ma ugualmente deprecabile “Colpa loro se ne parlano solo ora, no?”. Più sofisticata l’idea che la campagna, per quanto encomiabile in teoria, sia inutile sul piano pratico. Sorvoliamo poi sulle polemiche specifiche sorte ai danni di Asia Argento, vittima messa a processo e usata come metro di giudizio per la presunta “parte in causa” di chi ha subito.

Niente di nuovo sul fronte occidentale, dunque?

Forse.

Forse, però, alimentare il dibattito, anche a costo di doversela vedere con ignoranza e aggressività, può ancora apportare cambiamenti positivi, rimodellando passo dopo passo la prospettiva con cui guardiamo certi eventi e le strategie che riteniamo accettabile adottare in date situazioni: così, dopotutto, cambia il mondo.

Riccardo Rossi