Marlene Dietrich, l’angelo azzurro che sfidò la Garbo

Altro che diavolo. In un cabaret di infimo ordine, Lola Lola perversa sciantosa spinta dalla sua diabolica natura, volgare, eccessiva e carnale, a cavalcioni su una sedia sguaina le bellissime gambe e, quasi indifferente alla chiassosa umanità e alla silenziosa cupidigia di sguardi lascivi, canta. Intona con la sua voce rugginosa un sensuale ritornello che sconvolge la mente di un povero professore portandolo alla perdizione totale in un’atmosfera torbida dove il peccato aleggia tra volute di fumo e tintinnio di bicchieri.

È una scena de “L’angelo azzurro”, un film che la sera del primo di aprile dell’anno 1930, debutta a Berlino e incorona a diva assoluta la sua protagonista: Marlene Dietrich. Una femme fatale così perfetta nell’ interpretare lo stile decadente ed espressionista del regista Josef Von Sternberg, da conquistarsi subito i favori del grande pubblico.

In quel momento però, l’attrice tedesca viaggia verso Hollywood a bordo di un transatlantico. Oltre il confine tra il mare e il cielo di fronte a lei c’è sempre un nuovo orizzonte: donna dalle tante e smisurate ambizioni è pronta a firmare il suo primo contratto con la Paramount, attratta dallo splendore dorato del cinema americano le cui sirene cantano cifre a tanti zeri nonché dalla possibilità di scegliere il regista.

Sul ponte della nave vestita da yachtman viene immortalata in una foto che serve al suo glamour per pubblicizzare l’immagine divistica de ”La donna che persino le donne possono adottare”, molto aderente allo spirito liberale californiano di quel tempo.

Varca l’oceano seppure star acclamata, anche in contrapposizione dichiarata alla deriva autoritaria e oscurantista che spira in Germania, respingendo sdegnosamente le avances del partito nazista, che continueranno incessantemente per molto tempo, fattesi ardite dopo la trionfale prima del film a Berlino.

In quella città lei è nata nel 1901, ha respirato i dettami della tracotanza prussiana e ricevuta l’educazione riservata alle fanciulle di buona famiglia nell’epoca dell’impero tedesco di Guglielmo II: studio del violino, scuola di danza e lingua francese. Da adolescente aveva scoperto che i suoi geni artistici ben si adattavano al ruolo di cantante di operette e riviste mentre quelli trasgressivi fin dalla prima giovinezza cominciavano ad affiorare in attività teatrali scandalosamente lesbiche al fianco di personaggi carismatici come Claire Waldoff e Margo Lion.

Nel 1923, tanto per non farsi mancare niente s’era sposata con l’aiuto regista Rudolf Sieber, era diventata mamma un anno dopo e continuando nella dura gavetta dei ruoli minori cominciò a delineare lo spessore del suo personaggio di donna volubilmente pericolosa che così si concretizzò nel film: ”Cafè Eletrik” del 1926.

Eccola così pronta a cavalcare la tigre del successo e, nella piena consapevolezza dei suoi trenta anni, sostenuta dalla presenza del suo raffinato pigmalione regista Von Sternberg e dal talentuoso sarto costumista Travis Baton, si compie la sua metamorfosi Hollywoodiana: la sua bellezza decisa e oltraggiosa spogliata dalla grevità teutonica, diventa stilizzata guance ancor più pronunciate, sopracciglia finemente arcuate, labbra sottili e sorriso enigmatico. Il suo fascino androgino sfumato sconfina in un’immagine di decisa ambiguità e il suo abbigliamento in un festival di piume, lustrini, veli e velette con addobbi di monili d’ogni foggia e audaci copricapo, sottolinea la sofisticata eleganza di una classe sopraffina poiché naturale.

Così ridisegnata scende in campo a sfidare anche sul piano personale il suo alterego: Greta Garbo, la fulgida stella della concorrente casa di produzione MGM, che lei ammirava non ricambiata malgrado la comunanza di certi gusti sessuali. Infatti  le due si erano già incontrate nel 1924 e pare che, nei camerini della compagnia di teatro di Berlino di Max Reinhardt, la spavalda e sessualmente più esperta Marlene trionfante della sua diversità abbia sedotto la diciannovenne timida biondina che invece ossessionata dalla segretezza l’aveva in seguito, se avesse parlato, minacciata di chissà quali clamorose rivelazioni riguardanti intrecci politici legati ad un giro di spie del quale pare facesse parte Otto Katz e che addirittura costui fosse il suo vero marito e non il compiacente Rudi SeiberLa loro rivalità extracinematografica ebbe il culmine nel 1932 nel  triangolo amoroso intessuto con la stessa donna: la scrittrice ispano americana Mercedes de Acosta, mentre un film dopo l’altro all’irresistibile ascesa dell’una corrispondono gli ultimi sussulti  che precedono il solitario tramonto dell’altra. Con la regia del suo mentore Josef Von Sternberg, la Dietrich aveva iniziato il suo percorso americano nel 1930 col film ”Marocco” interpretando il ruolo della bellissima e irresistibile avventuriera che questa volta intreccia una melodrammatica storia d’amore con un bel legionario dal limpido cuore: Gary Cooper.

Nel frattempo sui cieli d’Europa cominciano ad intravedersi le sagome dei quattro cavalieri dell’apocalisse e sotto quello di Berlino, lugubri individui in macabre divise oscurano gli ultimi bagliori della repubblica di Weimar. In fuga dal nazismo si rifugeranno in America alcuni tra i migliori attori, registi e tecnici del cinema tedesco dell’epoca come Fritz Lang ed Ernst Lubitsch. Prodotta e diretta da quest’ultimo Marlene apparirà in “Desiderio” del 1936 eAngelo” del 1937, due commedie dall’ineguagliabile tocco di raffinatezza del genio formatosi appunto in quella culla del progresso artistico democratico tedesco. Nel primo è una magnifica ladra che s’innamora del buon americano Gary Cooper in un metaforico confronto tra la vecchia fascinosa Europa un poco decadente e la giovane nazione statunitense rivolta al futuro. Nell’altro è una donna contesa da due uomini in bilico tra fedeltà e passione, in un turbinio di situazioni tipiche del menage matrimoniale.

Nonostante la notevole perfomance di ”Shanghai Express”, ribadita dal successo di ”L’imperatrice Caterina ”Capriccio Spagnolo”, a metà degli anni trenta entra in crisi il suo rapporto con Von Sternberg e la Dietrich più flessuosa e sexy che mai, riappare circondata da un nugolo di baldi maschietti ne” La taverna dei sette peccati” del 1940. Allo scoppio della seconda guerra mondiale si prodiga nella sua propaganda antinazista e organizza spettacoli per le truppe americane da cui fuoriesce la celeberrima” Lili Marlene”, un nostalgico canto contro la guerra adottato dai soldati di tutto il mondo. Benché matura riesce ancora a sostenere un profilo di sicumera, alterigia e fierezza che riversa, magistralmente diretta, nei suoi ultimi film: “Scandalo internazionale” di Billy Wilder; “Paura in palcoscenico“ di Alfred Hitchcock”Rancho Notorius” di Fritz Lang e ancora: “Testimone d’accusa”, ancora con Wilder; “L’infernale Quinlan” di e con Orson Welles; ”Vincitori e vinti” di Stanley Kramer del 1961. Incurante della privacy in tutto questo periodo aveva intessuto le più varie relazioni con uomini e donne con la graffiante e sardonica consapevolezza di un modo eccessivo d’essere donna ostentato anche da atteggiamenti equivoci in abiti maschili. Nel 1975 a seguito d’un incidente, lascia le scene e si ritira a Parigi. Qui oltrepasserà la soglia dei novanta anni, finché un giorno di maggio del 1992, cadde l’ultimo petalo della vita di una delle più affascinanti e intriganti personalità che il cinema abbia mai conosciuto. Marlene Dietrich è stata più che un mito: ha attraversato il tempo come simbolo del peccato perché era una donna che sapeva amare soprattutto quando voleva farsi amare.

Vincenzo Filippo Bumbica