Mario Corso e il calcio al tempo di Herrera

A volte il pensiero comune divide e la diversità unisce. Metti l’immutabile credo di un allenatore ingegnoso, carismatico e folkloristico: ordine, disciplina e tattica e, di contro, le naturali caratteristiche estemporanee di un giocatore geniale, pigro e anarchico. L’uno Helenio Herrera detto il Mago per le sue taumaturgiche qualità di trascinatore: abbondanza di facili proclami, ma indiscutibili successi. L’altro Mario Corso, un mattocchio di calciatore soprannominato il piede sinistro di Dio, vagava sul campo dove lo portava l’estro per sciorinare il suo gioco fatto di ricami raffinati e trame improvvisate. Questa splendida e magica alchimia, fu uno dei pilastri portanti di una squadra che avrebbe dominato il mondo: la grande Inter del presidente Angelo Moratti che volle a tutti i costi quel roboante mister franco argentino e la cui moglie signora Erminia invece stravedeva per gli estemporanei tocchi di classe di quell’elegante e atipico numero undici.

Correva l’anno 1960 e le carriere dei due fatalmente si incontrarono. Successe che dopo una sconfitta subita ad opera del Barcellona in coppa delle Fiere, il petroliere milanese stregato dall’allenatore dei catalani teorico del “taca la bala”, lo mise dunque sotto contratto, mentre fin dal lontano 1957 il mancino veronese era già stato arruolato sotto lo stemma del biscione nerazzurro. Dopo lo scudetto sfiorato nel seguente biennio, la rosa della squadra si arricchì di grandi nomi e nacque così la leggendaria formazione che ancor oggi a ripeterla diventa un mantra: Sarti, Burnich, Facchetti, Tagnin( Bedin), Guarneri, Picchi, Jair( Domenghini), Mazzola, Cappellini, (Milani, Peirò), Suarez e Corso. Rinnovatasi nel tempo mantenendo però l’ossatura base, cominciava così il ciclo della Beneamata, così viene ancora chiamata l’altra squadra di Milano, le cui imprese vittoriose, oltre il rispetto degli avversari, si conquistarono la quasi totale adesione dei tifosi italiani di altre squadre allorquando i nerazzurri si misuravano in campo europeo prima e mondiale dopo.

Il luccicante palmares di quella squadra straordinaria, parla di ben tre scudetti; due Coppe dei Campioni, manifestazione allora riservata ai soli vincenti del titolo nazionale e un altrettanto significativo bis di prestigiose Coppe Intercontinentali, a celebrare quel fantastico quinquennio che va dall’eclatante avvio del 1962-63 al tragico tonfo del 1966-67. Tutto un susseguirsi di scontri al calor bianco con le rivali di sempre del campionato italiano (Juventus, Milan e Bologna in primis); squadre di alto lignaggio (Real Madrid e Benfica su tutte) o di crescente rango (Liverpool e Indipendente).

In tutto questo periodo Mariolino Corso, (un vezzeggiativo in tono con lo smisurato affetto dei suoi fan), aveva deliziato il gusto e incantato l’estetica pallonara delle platee di mezzo mondo con la sublime poesia dei suoi piedi in movimento. E quando toccava a lui mettere la ciliegia sulla torta non era mai una giocata banale. Alle proverbiali punizioni a foglia morta, suo marchio di fabbrica, che eseguiva con il suo mancino tocco felpato che dolcemente portava la palla a morire in rete dopo aver sorvolato la barriera, alternava la magia di segnare con tiri beffardi talvolta cogliendo il portiere in controtempo. Il tutto miscelato da una falsa indolenza che non appena catturava il pallone si trasformava però in un valzer dalle sinuose cadenze calcistiche. Era dunque lui l’eccezione che conferma la regola in quella squadra dallo schema collaudato dove ognuno doveva avere un compito. H.H. tollerava a stento questo privilegio, ma se ne ricordava puntualmente a ogni estate quando nel tentativo di convincere il presidente a cederlo si scontrava anche con il netto diniego della Lady nerazzurra che lo considerava il suo cocco. La manfrina durava poco perché il sistema di gioco ideato dal Mago era vincente: una formidabile difesa a oltranza (il cosiddetto catenaccio) con la variante di un terzino goleador Facchetti, veniva protetta da una mediana di corridori aspettando di partorire veloci contropiedi innescati dai geometrici lanci di Suarez, che favorivano le sgroppate della freccia Jair o del poderoso Domenghini per trovare il giusto appoggio nelle rifiniture sottorete di Mario falsa ala mancina, oppure in dirette conclusioni a rete di Mazzola o chi per lui.

Travolti da questo solito destino i due convissero se non per amore per accordo, finché nel giro di pochi giorni di quel maledetto maggio del 1967, si concretizzò la caduta degli dei attraverso due incredibili partite: la prima a Lisbona nella finale di Coppa contro i tetragoni scozzesi del Celtic Glasgow, persa per due a uno dopo l’effimero vantaggio iniziale e la seconda in quel di Mantova, dove una clamorosa papera del, fin qui irreprensibile, portiere Giuliano Sarti, consegnò ai soliti rivali della Juventus un bel pacco dono chiamato scudetto. Il vento giusto fa galleggiare una squadra sulla cresta dell’onda, ma se all’improvviso cambia direzione scatena marosi che la possono affondare: la dinastia di Moratti Senior e del primo scintillante Helenio Herrera era finita e nel frattempo un anno prima anche quella in maglia azzurra, per la verità effimera, del recalcitrante a ogni tatticismo Corso: per questo modo di essere si era già giocato un posto in nazionale in occasione dei mondiali inglesi del 1966.

E dopo un paio di stagioni, in concomitanza però del nuovo approdo dell’ineffabile mago alla corte dell’Inter presieduta da Ivanoe Fraizzoli, nel 1973 Mariolino Corso chiuse anche la sua lunga storia d’amore colorata di nerazzurro per trasferirsi al Genoa dove continuò per altri due anni nel suo caratteristico trotterellare. Il consuntivo finale della fulgida carriera di quel fuoriclasse, nato a San Michele Extra(provincia di Verona) il 25 agosto del 1941, annovera cifre impressionanti e importanti traguardi: 528 presenze complessive in serie A con 97 reti totali, di cui 502 e 94 solo con l’Inter. Con quest’ultima vinse quattro scudetti, due Coppe campioni e due trofei Intercontinentali.

Lo stadio di San Siro ovvero la Scala del calcio italiano, ieri il teatro dei sogni di quelli come Mario, appena qualche giorno fa è stato lo scenario di una monotona rapsodia svedese alla quale i nostri azzurri hanno opposto un melodramma dal triste epilogo: l’eliminazione dai mondiali di Russia 2018. Come se fossero preda di un oscuro sortilegio i nostri musicisti hanno tentato disperatamente e con frenesia di suonare meglio e ancora più forte. C’è mancato innanzi tutto il primo violino, quello che avrebbe potuto rendere perfino magico il tocco della bacchetta del direttore d’orchestra.

Uno come Mario Corso, ad esempio, FORSE sarebbe servito. Ma come le stagioni anche i calciatori non sono più quelli di una volta.

Vincenzo Filippo Bumbica