Liberarsi della rabbia imparando a lasciarsi in pace

Rabbia: violenta irritazione, spesso accompagnata da parole o da azioni incontrollate; è la definizione che il vocabolario ci fornisce di quest’ emozione. Chi di noi non ha mai provato rabbia? Che sia stata lieve, come un fugace fastidio, o un’ira profonda e bruciante verso qualcosa o qualcuno.

Questa emozione può manifestarsi con vari gradi di intensità: “da una lieve irritazione fino ad un intensa furia e collera” come sostiene Charles Spielberger, dottore in filosofia e psicologo specializzato nello studio della rabbia.

Come gli altri sentimenti, anche la rabbia è accompagnata da un cambiamento psicologico e biologico; quando qualcuno si arrabbia il battito del cuore aumenta, la pressione sanguigna si innalza, così come i livelli di energia degli ormoni, dell’adrenalina e della noradrenalina.
La rabbia può essere causata sia da fattori esterni che interni: potresti essere arrabbiato con una specifica persona, un evento o potrebbe essere causata da preoccupazioni, un rimuginare di problemi personali o memorie di eventi traumatici.

Istintivamente, il modo naturale di esprimere la rabbia è di rispondere con un comportamento aggressivo; quest’ultima è infatti una risposta alle minacce, che, suscita potenti e spesso aggressivi comportamenti di difesa quando siamo attaccati. Una certa parte di rabbia è necessaria per la sopravvivenza.Tuttavia, ognuno di noi ha un modo personale di reagire ad un’esperienza di rabbia: ci sono persone più propense a internalizzare, a tenere tutto dentro, altre che cercano di non pensarci evitando l’oggetto della rabbia, altre ancora che la sfogano con parole o comportamenti, altre ancora continuano a pensare a quello che l’ha causata, mantenendo attiva l’emozione.

La domanda che ci poniamo è: se da una parte è stato più volte dimostrato come rimuginare e tenere il muso sia controproducente sia nelle relazioni interpersonali, che per la regolazione emotiva, siamo certi che sfogarci con un comportamento aggressivo sia davvero la soluzione che ci può liberare di questa emozione?Il professor Brad Bushman ha condotto degli studi al riguardo, giungendo ad interessanti conclusioni. Una di queste ricerche ha coinvolto 600 studenti (metà maschi e metà femmine) suddivisi in 3 gruppi: a tutti gli studenti è stato chiesto di produrre un testo scritto, che successivamente è stato analizzato e criticato da un compagno. Un primo gruppo ha ricevuto indicazione di colpire un pungiball immaginando che raffigurasse il compagno che li aveva criticati, un secondo gruppo ha dovuto colpire il pungiball pensando a quanto questo migliorasse la propria forma fisica e un terzo gruppo non ha ricevuto nessuna indicazione e non ha colpito il pungiball, rimanendo in attesa. Tutti i soggetti hanno poi compilato dei questionari che valutavano la rabbia e l’aggressività.

Secondo la teoria della catarsi, sfogarsi colpendo un oggetto e contemporaneamente pensare a una situazione o a una persona che ci ha causato rabbia, dovrebbe aiutarci ad abbassare il livello di attivazione emotiva e calmarci. In realtà è emerso l’opposto: il gruppo di partecipanti che aveva colpito il pungiball, ripensando alla persona che li aveva criticati, ha mostrato maggiori livelli di rabbia e ostilità al termine dell’esperimento, seguito dal campione che aveva colpito il pungiball pensando ad altro. Sorprendentemente, il gruppo di controllo che era rimasto in attesa senza fare nulla ha mostrato i minori livelli di rabbia e ostilità al termine dell’esperimento.
Se questi risultati sono in contraddizione con la teoria della catarsi, sono, invece, allineati con la Teoria Metacognitiva di Wells: se analizziamo la condizione di sfogo con la lente d’ingrandimento possiamo notare che questa prevede una forma di ruminazione rabbiosa, con il conseguente sfogo fisico colpendo il pungiball. Coerentemente con gli studi di Wells e colleghi, le forme di pensiero perseverante contribuiscono a mantenere l’attenzione focalizzata sulla situazione che ha innescato l’emozione negativa, mantenendo attiva l’emozione stessa (in questo caso, la rabbia). Il fatto di rimanere fermi senza fare nulla (condizione di controllo per questo studio) ha invece molto a che vedere con quello che Wells chiama “lasciare in pace i pensieri”: permettere cioè che il pensiero (in questo caso arrabbiato) semplicemente se ne vada come è arrivato, senza alimentarlo con ulteriori risorse cognitive, che lo mantengono attivato e vivido.

Conclusione? Il pensiero perseverante in termini attentivi ed emotivi non fa altro che amplificare i sentimenti, innescando comportamenti negativi. Tutto ciò ci deve far riflette sul fatto che in qualche misura, soprattutto per le cose che ci stressano nel quotidiano, la soluzione possa davvero essere imparare a lasciarsi in pace.

Claudia Ruiz