Laurent Fignon: dolce incanto e fatal destino di un ciclista parigino

“Il caso è il nome che lo sciocco dà al fato”, recita un vecchio adagio. Non essendo sciocco ma fatalista, quell’uomo dall’aspetto delicato: finissimi capelli biondi racchiusi in un vezzoso codino e raffinati occhialini rotondi che gli conferivano una greve aria da intellettuale confermata dalle sue letture, era detto ”Il professore” e si rese ben presto conto che lo strano gioco del destino avrebbe avuto un ruolo importante nel corso della sua carriera, anche se non lo sfiorava minimamente l’idea che lo avrebbe prematuramente portato in braccio alla signora dal ghigno spietato.

Quel 31 agosto 2010 aveva compiuto da poco 50 anni Laurent Fignon ed era diventato paradossalmente un atleta famoso, al di là delle sue straordinarie vittorie, per le sue clamorose débâcles avendo dovuto convivere con gli altalenanti capricci del fato materializzatisi anche  sotto forma di tecnologia esasperata per quei tempi: la ruota lenticolare montata sulla bici di Francesco Moser abbinata alla vicinanza sospetta dell’elicottero di accompagnamento, gli fecero perdere la trebisonda e il Giro del 1984; il manubrio a corna di bue che non poco aiutò l’americano Greg Lemond a soffiargli la maglia gialla nella cronometro finale del Tour 1989 per l’inezia di otto secondi: Ciclista egli era assai valente e anche in quel frangente d’onor si ricoprì, ma giunto alla fine della tenzone sul palco la delusione alfine lo tradì. Fu l’inizio della fine per un re senza corona e senza sorte che dopo il ritiro si sarebbe trovato faccia a faccia con la morte. Fuor di metafora, perifrasi e rime infatti, dopo qualche anno dal 1993 in cui aveva  appeso al chiodo la bicicletta, si ritrovò a combattere con il manifestarsi di un terribile male che ne avrebbe purtroppo minato la forte fibra consolidata in un fisico abituato a sforzi immani. Questa, assieme a una grinta da indomabile, era la principale caratteristica di quello che a prima vista non sembrava certo un ciclista, poiché Laurent, nato a Parigi il 12 agosto del 1960, rappresentava l’essenza del cittadino tuot court che ribaltava il prototipo del corridore d’antan: se prima costui, di provenienza se non proprio campagnola, era per lo più un provinciale poco avvezzo ai sofismi che sbuffava andando avanti solo a pane e fatica, già a metà degli anni ottanta cominciava a proporsi come una figura diversa. Un impeccabile professionista,  molto più attento al  linguaggio, al look e alle dinamiche di corsa ovvero, a seconda del ruolo in squadra, meno garibaldino e più partecipe alle vicende comuni e al contempo molto più cinico e spregiudicato nel programmare e inseguire determinati obiettivi. Ognuno a caccia della notorietà necessaria per ritagliarsi un proprio spazio in un movimento in piena espansione sempre alla ricerca di nuovi traguardi e di nuove frontiere. Questo sgomitare a caccia di successi, generò un clima di esasperata competitività che proprio in quegli anni cominciò a mostrare la faccia spregevole di un terribile mostro chiamato doping, la cui voracità a tutt’oggi è capace d’ingoiare la credibilità di uno degli sport più a misura d’uomo che esista.

Nelle sue memorie racchiuse nel libro: “Eravamo giovani e spensierati”, Laurent Fignon affronta il problema raccontando del suo coinvolgimento ad assumere certi farmaci, però dubita che queste sostanze abbiano avuto in qualche modo relazione con la sua malattia. In altre pagine, il corridore francese parla soprattutto del suo sconfinato amore per la sua professione che significa anche coinvolgimento con la natura e di come questo sentimento abbia potuto arricchirlo così tanto:A quell’epoca”, spiega,” eravamo fieri, coraggiosi e spavaldi, ma anche poetici”, come quando congedandosi dal suo mondo nel 1993, sulla salita della Bonnette al Tour, si sfilò da solo all’ultimo posto “per godermi un momento di tristezza e grazia che nessuno poteva rubarmi”.

A quella dolce uscita di scena, se ne aggiunse un’altra: drammatica e amara, ma anche piena di dignità per il suo coraggio nel cercare di non arrendersi mai all’evidenza, ma il triste gioco del destino fece il suo cammino sulla pelle di quel biondino.” The last hurrah”, in onore di un grande campione: due Tour de France (1983-1984); un Giro d’Italia (1989); due Milano-Sanremo (1988-1989); una Freccia Vallone e una miriade di altri prestigiosi successi.

Una storia a due svolte che raccontano di un ciclista, di un uomo e di un esempio: forza e coraggio che la vita è un passaggio il cui itinerario ognuno di noi è obbligato a scegliere.

Vincenzo Filippo Bumbica