La chiamavano maturità: luci e ombre del nuovo esame di Stato

La chiamavano maturità. Correva l’ anno 1923 quando il ministro Giovanni Gentile inserì il rito di passaggio che ancora oggi fa tremare le ginocchia a migliaia di studenti ogni anno. Le regole erano chiare: quattro prove scritte e una orale davanti a  docenti esterni. Commissione presieduta dal ministro stesso. In totale 60 sedi nazionali per sostenere l’esame. Fu Berlinguer nel 1997 a riformare la maturità, ribattezzandolo “Esame di Stato”: tre prove scritte,  più una prova orale da sostenere davanti ad una commissione di docenti per metà interni e per metà esterni.  Da quel momento in poi non vennero più apportate modifiche particolarmente significative, ma lo scenario è pronto nuovamente a cambiare.

Gennaio 2017: il nuovo anno è appena iniziato, ma le novità non si fanno attendere. Tutti quelli che avevano sperato di veder cambiare le regole del gioco in tempi brevi, possono ritenere il loro desiderio quasi esaudito.  Infatti, il 14 gennaio si è dato il via alla nuova riforma con 8 decreti attuativi parte del progetto della Buona Scuola. Le novità fanno riflettere. Si inizia con la riduzione degli scritti da tre a due prove, e il colloquio finale dovrà dare spazio all’esperienza di alternanza scuola-lavoro svolta durante l’anno. Ma non sono tanto questi i punti che fanno discutere: ciò che negli ultimi tempi ha davvero inasprito le polemiche è stato il nuovo criterio di ammissione all’esame e di assegnazione dei punteggi alle prove.

Bisogna infatti sapere che i maturandi del 2018 potranno accumulare negli ultimi tre anni di scuola, un totale massimo  di 40 crediti  solo con la media dei voti delle tre pagelle finali, e che invece i punti cumulabili con le vere e proprie prove d’esame non saranno più di 15 punti ciascuna, ma di 20. Al colloquio finale potranno essere attribuiti al massimo 20 punti. Da qui possiamo quindi dedurre che il percorso scolastico del singolo alunno acquisterà un peso decisamente maggiore finalizzato a premiare la costanza e l’impegno dimostrati negli anni. Ma le cose si complicano con il nuovo criterio di ammissione: infatti non sarà più necessario avere la sufficienza in tutte le materie per essere ammessi, basterà avere la media del 6 a cui contribuirà anche il voto di condotta.

Da questo si capisce il perché di tante obiezioni. Se l’aumento dei crediti ottenibili con la media dei voti voleva in qualche modo premiare tutti quegli studenti che dimostrano un evidente interesse nel proprio percorso formativo, al contrario, concedendo l’accesso anche a studenti che non presentano la sufficienza in tutte le materie, si finisce per premiare la mediocrità. Il panorama a cui si va incontro sembra essere quello di una scuola finalizzata al raggiungimento di standard europei, piuttosto che interessata a forgiare studenti in grado di muoversi nel mondo con conoscenze e competenze tali da coprire a 360 gradi il panorama sempre più eclettico della realtà.

Per dirla con una metafora, questa sembra la scuola dei “saldi di fine stagione”: al prezzo di due buoni voti, si ha in omaggio la media del sei. Al di là dell’ironia, bisogna comunque analizzare la situazione per quella che è: dobbiamo prendere atto del fatto che ci troviamo davanti ad una scuola che pensa sempre più alla potenziale futura occupazione dei suoi “utenti”, piuttosto che a coltivare nei giovani l’interesse per la conoscenza. Ciò che andrebbe recuperato è il valore umano dell’istruzione, che trascende quello puramente economico a cui ormai qualsiasi cosa viene ridotta.

Si è parlato tanto dell’utilità di insegnare le materie umanistiche nei licei, come se Seneca e Socrate non avessero più niente da dire. La verità è che non tutto il sapere deve essere ricondotto a pura utilità pratica. La verità è che oltre alla praticità, l’uomo ha bisogno anche di bellezza e di cultura. E affinché la bellezza e la cultura possano agire in modo positivo e produttivo sulle giovani menti, forse è meglio che i saldi di fine stagione restino riservati ai grandi magazzini.

Nausicaa Borsetti