American actor Kirk Douglas, circa 1963. (Photo by Silver Screen Collection/Getty Images)

Kirk Douglas, la brama di vivere di un uomo senza tempo

All’alba vincerà. Ora che ha raggiunto i confini del tempo, ogni giorno passato dal nove dicembre in poi sarà uguale a una vittoria. Entra in un’altra dimensione oltrepassando un secolo di vita quest’omino rimpicciolito dal peso degli anni, con la pelle quasi trasparente a coprire lo spigoloso volto adornato da capelli così bianchi da sembrare finti e per farlo ha dovuto sconfiggere un infarto, un ictus e la ricostruzione delle ginocchia, sopravvivere alla seconda guerra mondiale e scampare miracolosamente a un incidente d’elicottero.

Compie cento anni e ora sogghigna come al solito la sua vecchia maschera, con ancora l’orgoglio e lo stile che lo hanno sempre contraddistinto.

Ha attraversato il suo spazio temporale in questo intervallo tra due vite Issur Danielovitch Demsky, alias Kirk Douglas e ha riempito un grande spazio cinematografico a ricordare quanto sia stato incisivo nella sua prima vita di attore e quanto sia stato coraggioso a gestire il suo viale del tramonto lastricato com’è stato dalle foglie al vento di drammatici avvenimenti e preoccupanti problemi di salute. I fogli del calendario sono numeri che si sono susseguiti fin dal 1916 per questo figlio di un immigrato bielorusso ebreo venditore di stracci nato ad Amsterdam nello stato di New York che cominciò a farsi largo in quella pulsante e caliginosa metropoli all’inizio degli anni trenta.

Laureato e poi diplomato all’American Academy of Dramatic Arts, quel giovane biondo digrignante, dai tratti decisi esaltati da una profonda fossetta sul mento, eccelleva nello sport della lotta modellando così un fisico scattante che accoppiato agli studi di recitazione gli permise di esordire a Broadway nel 1941. I migliori anni della sua vita incominciarono in questo modo per uno degli attori più longevi attori della storia di Hollywood. Un emergente attore tignoso pronto a interpretare qualunque ruolo, dal primo all’ultimo, agganciato a tutti gli esemplari del genere cinematografico: drammatico, poliziesco, thriller, western, avventura, psicologico, commedia, guerra, mitologia trascinandosi appresso il suo vero personaggio: un tipo dalle ribollenti di passioni umane, che sfociavano in sfacciati sorrisi canaglieschi, tipici dei volitivi ribelli sfortunati con addosso una sofferta e intensa esuberanza.

Esordì nel 1946 in ”Lo strano amore di Marta Ivers”, nella parte di un giovane arrivista sociale debole e vile che sposa la perfida Barbara Stanwyck sapendola colpevole, pur di diventare procuratore distrettuale. Si fece notare, malgrado non gli appartenessero del tutto i toni della commedia, come l’intellettuale George di”Lettera a tre mogli” e nello stesso anno apparve di tutt’altra pasta fatto come protagonista del film: ”Il grande campione”, nei panni di un pugile ricco di forza ma scarso d’umanità. Si affermò definitivamente negli anni cinquanta, iniziando il suo decennio d’oro con la ruvida e cinica interpretazione di Charlie Tatum, il gaglioffo giornalista de: ”L’asso nella manica”.

Poliziotto spietato più con se stesso che con gli altri, vittima del dovere s’immola nell’ambiente cupo e ingessato di: “Pietà per i giusti”; intrepido cacciatore di pellicce benché legato da virile amicizia con un  trapper, non esita a sposare la pellerossa oggetto dei loro desideri nel fluviale ”Il grande cielo”; crudele produttore cinematografico dalla faccia tosta cerca di evitare la rovina riproponendosi a coloro che aveva usato senza scrupoli nel mondo ingannevole di: ”Il bruto e la bella”; vagabondo eroe omerico, alla fine di decennali vicissitudini, rientra in patria grazie alla sua proverbiale astuzia per riabbracciare la cerebrale sposa Penelope(l’eterea e incantevole Silvana Mangano), nell’epico ”Ulisse” del 1954.

Scolpito nell’interesse del pubblico da queste incisive prestazioni, il sulfureo Kirk, aggressivo e prevaricatore com’è il più delle volte, incapace di dialogare con registi e produttori, decise nello stesso anno di fondare una propria casa cinematografica. Sotto l’egida della Byna Productions realizzò alcuni dei suoi più grandi successi da protagonista assoluto.

Sotto l’ala del grande maestro Vincent Minnelli si esaltò nella stupenda caratterizzazione del folle invasato, nonché geniale pittore Van Gogh nel tormentoso: “Brama di vivere”; irruppe a modo suo nel nuovo genere western, rappresentando con rara maestria la figura di un antieroe tisico dal destino segnato: il famigerato dottor Doc Holliday che per tornaconto personale e amicizia affianca il risoluto e coraggioso sceriffo Wyatt Earp (Burt Lancaster, suo amico e collega preferito (girarono indieme sette film), nel monumentale affresco di un’epopea raccontata dal film ”Sfida all’O.K.Corral”; poi assunse il giovane Stanley Kubrick per affidargli la regia di “Orizzonti di gloria “in cui si affronta il tema dell’antimilitarismo coniugato con l’ottusità del potere.

Dopo un intermezzo nel suggestivo culto di Odino con il film storico “ I Vichinghi” del 1958, dove mirabilmente impersona il temibile guerriero Einar che sfortunato due volte perde l’amore (la dolce Janet Leigh) e la vita sempre per mano del segreto fratellastro Eric (Tony Curtis); tre anni dopo richiamò  il geniale cineasta newyorchese Kubrick e malgrado  come produttore tendesse a imporgli il suo credo, girarono assieme il capolavoro ”Spartacus”, un kolossal nel quale egli interpreta la parte dello schiavo ribelle che vagheggia l’utopia dell’uguaglianza attraverso la libertà nella sfarzosa Roma dell’ambizioso Crasso e dell’astro nascente Giulio Cesare.

Kirk Douglas in tutto quel periodo accumulò tre nomination all’Oscar che poi gli sarà assegnato alla carriera nel 1996, quasi a compensare una certa miopia abbinata alla sciocca prevenzione tipica della Hollywood political correct.

Arrivarono gli anni sessanta annunciando un mondo in fermento e l’attore nel suo rinnovamento si mantenne su livelli elevati di professionalità: tornando sui suoi passi e si riaffidò al fine Minnelli per interpretare un regista in crisi nel melodrammatico  ”Due settimane in un’altra città”, poi passò dal thriller di ”I cinque volti dell’assassino”, al politico ”Sette giorni a maggio”; dai bellici ”Eroi di Telemark” e “Parigi brucia?”, all’epocale ”La via del west”; dal sociale ”La fratellanza” all’introspettivo ”Il compromesso”; dal western classico moderno di ”Uomini e cobra”, all’avventuroso “Il faro in capo al mondo”, per finire ai fantasy ”Holocaust 2000” e “Fury” e con questi arrivò alla frontiera dei seriosi anni settanta.

Qualche ruolo ancora interessante gli capitò anche negli anni 80 con “Countdown dimensione zero” e “La fuga di Eddie Macon” a testimoniare la voglia di non sentirsi affatto superato.

La lunga sfilata dei personaggi termina qui. Il loro congedo tocca a un personaggio singolare un po’ in ombra, ma che forse più di tutti lo rappresenta intimamente. Un tizio alla Jack Burns, il romantico cowboy, malinconico e testardo di “Solo sotto le stelle” che incapace di adattarsi ai cambiamenti della società prima di lasciare forse definitivamente la sua donna (l’intensa Gena Rowlands), le dice: “Il sole sta salendo, se potessi avere un bacio, forse arriverei prima di lui su quella collina”.

Ecco cucito addosso il perfetto abito di Kirk Douglas: un uomo inconsueto e imperfetto che da attore memorabile ha saputo reggere la scena poiché capace di tenere a bada il suo smisurato alter ego per disegnare con rara vanità ritratti di varia umanità. Un eterno ever green che in gioventù batteva il tempo: quando debuttò aveva trenta anni, ma ne dimostrava a stento venti.

E ancora oggi dopo che la sua festa appena cominciata non è mai finita, il suo ricordo corre via col vento come e più di quando era giovane perché il cinema è l’eterna illusione della vita in cui tutto può succedere, anche di scordare la morte.

Vincenzo Filippo Bumbica