American tennis player John McEnroe pictured competing to progress to reach the final of the Men's Singles tournament before losing to Bjorn Borg at the Wimbledon Lawn Tennis Championships at the All England Lawn Tennis Club in Wimbledon, London in July 1980. (Photo by Leo Mason/Popperfoto/Getty Images)

John McEnroe e la grande bellezza del tennis d’autore

Cos’è il genio? E’ fantasia, intuizione, decisione, velocità d’esecuzione. E quel tracotante tipetto, poco più di un moccioso di dodici anni, che un giorno del 1971 dalla vicina Douglastone si presentò all’accademia del tennis di Port Washington, ne incarnava le sembianze.

Fu accolto dal transfuga australiano Harry Hopman detto mastro Geppetto per la sua incredibile capacità di estrarre il talento dal Pinocchio di turno, in quel mentre tutto impegnato a piallare i difetti e lucidare le virtù di un certo Vitas Gerulaitis e dal marpione messicano Gustavo Palafox responsabile del centro tecnico. I due si accorsero al primo sguardo che non si trattava di un visionario: quel piccolo presuntuoso irlandese d’America pieno di efelidi tutto grinta e boccoli, viziato e chiacchierone, usava la racchetta come se fosse il prolungamento del suo braccio sinistro e aveva le stimmate di un precoce fenomenale tennista.

Del suo bizzarro carattere se ne accorsero tutti al suo debutto nel circuito ATP: dopo aver rubato gli occhi con più di una delizia tennistica sul campo, continuava a tenere banco nel dopo match. Per mero puntiglio quel peperino pretendeva che, oltre l’arbitro di sedia, anche il suo avversario, non certo uno sprovveduto qualsiasi ma Zan Guerry numero 150 del mondo, riconoscesse sicuramente valido il passante di rovescio col quale lo aveva infilato. Quel colpo, atterrato nei pressi della riga, per lui, emergente junior statunitense, significava gioco, partita e incontro con relativo accesso al tabellone principale degli US Open 1976 che si disputavano sui campi di Forrest Hill.

Ebbene, siccome l’avversario se ne stava immobile con lo sguardo fisso su quella traccia e non voleva stringergli la mano accettando la sconfitta, lui s’intestardiva ancor più nel pretenderlo invece di piantare baracca e burattini intascando la vittoria. In quel parapiglia le discussioni si protrassero tanto e troppo fino all’inevitabile intervento del giudice arbitro che decise di far rigiocare il punto: perso il quale e sempre più irascibile l’incauto giovanotto gettò al vento quella magnifica occasione, ma non per questo se ne intese di cambiar registro.

Appena diciassettenne, questo era John McEnroe: un talentuoso predestinato che riottoso, ricamava e scuciva partite come fossero la tela di Penelope.
Quasi un anno dopo dal verde sbiadito della terra battuta americana, al verde smeraldo dei campi inglesi cambiò scenario ma non la sostanza. Sempre più cosciente dei suoi mezzi, lo spavaldo giovanotto all’esordio sui prati dell’All England Lawn Tennis and Croquet Club costrinse il composto pubblico londinese a rimettere gli occhi nelle orbite: non era mai successo che un tennista partendo dalle fasi preliminari di qualificazione raggiungesse addirittura la semifinale del tabellone principale di Wimbledon.

Lo aspettava dall’altra parte della rete l’esperto mancino dell’Illinois Jimmy Connors, già vincitore del titolo edizione 1974, un giocatore da prendere con le molle non solo per il suo straordinario agonismo, ma poiché suo pari nel comportamento in campo alquanto malandrino: i due così uguali nel rappresentare l’indomabile spirito americano, esprimevano però una diversa concezione di gioco. Quella volta l’imberbe John pagò lo scotto del noviziato e perse il confronto sia pure in quattro partite molto combattute. La sua conturbante teatralità tennistica, figlia anche del suo essere newyorchese puro, fu spazzata via dalla ruvida e concreta mentalità provinciale del suo impettito connazionale che alla traboccante personalità abbinava un tonante furore nel colpire la pallina. Fu il primo di tanti incontri, tutt’altro che corrispondenze di amorosi sensi, che diluiti nel tempo alimentarono gli insanabili contrasti tra i due galletti del tennis a stelle e strisce.

Da quel momento in poi, tranne che nella dissennata finale di Wimbledon 1982, in cui come un Narciso qualunque si specchiò a lungo nell’acqua della sua bravura finendo per l’affogare, John, puntiglioso più che mai, avrà spesso la meglio sullo spigoloso rivale anche sul piano dell’immagine rilevandone la leadership nazionale.
Stabilmente nell’elite mondiale vinse il doppio misto con Mary Carrillo agli internazionali di Francia del 1978, la Coppa Davis e soprattutto gli US Open superando in finale Vitas Gerulaitis al termine di un torneo in cui sembrava il giovane Aladino che sfregava la racchetta per realizzare i suoi desideri con soluzioni di gioco fantastiche.

Inscritto nel suo cerchio magico, stile e risultati parlavano per lui: questo stava diventando JohnMcEnroe.
Con queste siffatte qualità era fatale che entrasse in rotta di collisione coll’indiscusso mammasantissima della classifica mondiale: Bjorn Borg, un vincente assoluto dotato com’era di una concentrazione feroce assistita da una spaventosa condizione atletica. Fu l’inizio di una rivalità sportiva leale, intensa e affascinante sancita da un opposto temperamento che si riversava nella strategia tennistica: vulcanico e creativo l’americano con le sue raffinate soluzioni a rete, glaciale e solido lo svedese con i suoi redditizi colpi di sbarramento.

L’apoteosi di queste differenze deflagrò incontenibile nel famoso tie break nel quarto set del torneo di Wimbledon 1980, entrato di diritto nella storia del tennis. Per 18- 16 s’impose l’irriducibile mancino che però alla fine dovette cedere 8-6 al quinto, all’incrollabile solidità dell’imperturbabile biondino.

Se John McEnroe con le sue ineguagliabili qualità fosse stato meno supponente e più rispettoso della sacralità del luogo, il centrale di quel campo, che reclamava particolari attitudini tecniche, sarebbe potuto essere il giardino di casa pari al suo amato cortile di Flushing Meadows dove senza troppa etichetta spadroneggiava da qualche anno indisturbato. E invece preda d’irrefrenabili impulsi da magnifico dottor Jekyll che seduceva il pubblico con le sue gentili trame di gioco si trasformava nell’insopportabile Mr Hyde che lo indispettiva sceneggiando i suoi sproloqui come un incallito peccatore.

L’anno dopo però fu assolto da tutti i suoi peccati: inspirato dal Dio del tennis, sullo stesso campo e contro lo stesso avversario impugnò la sua racchetta Excalibur e menando fendenti a diversa traiettoria, alternati a colpi tagliati striscianti velenosi come serpenti e rifiniti dalla giustezza di tocco nei pressi della rete, ridusse alla ragione il pur indomabile vichingo. Lo batté di nuovo anche nella finale dell’US Open: col tarlo del dubbio nella corazza delle sue certezze, era fatale che Bjorn smarrisse il suo proverbiale aplomb e seppure giovane, confuso decise di appendere la racchetta al chiodo.

Ormai re incontrastato a New York, conquistato più di una volta lo scettro londinese e issatosi quindi alla testa della classifica mondiale, l’ambizioso signorotto tentò di diventare un monarca assoluto alla stregua del Re Sole e partì alla conquista del trono di Francia, ma trovò sulla sua strada una sorta di cavaliere nero, il temibile moravo Ivan Lendl che gli avrebbe impedito di coronare il suo sogno più bello:vincere uno Slam sulla terra battuta.

Successe un giorno a Parigi nella finale degli Open francesi del 1984, sull’infido rosso non bastò allo spocchioso sir John toccare di fino con la racchetta fioretto per due set e mezzo. Tagliuzzava cercando di dissanguare quel possente e sferragliante guerriero che invece roteava il suo attrezzo come una mazza ferrata e resisteva sanguinolento e impavido di fronte a quegli assalti. Esausto davanti a tale resistenza il cavaliere d’origine irlandese alla fine fu disarcionato e cadde con fragore sulla polvere rossa abbattuto dalla pesantezza dei colpi dell’uomo venuto dall’est.

Il prode Mac però fece appello a tutto il suo orgoglio tipico della gente originaria dell’Albione e si risollevò da quella che fu la più grande delusione della sua vita sportiva mettendosi in saccoccia oltre Wimbledon sopratutto gli US Open successivi. Qui sulla sua superficie ideale usò l’arma della rapidità e con fantasia annichilì rabbiosamente il monotono sciabolare del terribile Ivan.
I duelli fra i due divennero epici tra alterne fortune finché un giorno avvenne che John, non più numero uno, capisse a sue spese che quando il sole è stanco e non può più dare la stessa luce in quell’ombra alcuni nani diventano giganti.
Sette titoli dello Slam e nove in doppio dove la sua classe infinita prescindeva dal compagno, sono trionfi che sconfinano oltre la frontiera del suo palmares e non testimoniano abbastanza la sua grandezza.

Tutto questo è stato John McEnroe: un prodigioso tennista completo capace di giocare un tennis rivoluzionario quasi metafisico; un personaggio discutibile amato e parimenti odiato nella sua impossibilità di essere normale; un artista geniale che doveva sguazzare nella vanagloria tennistica riempiendola di eccessi verbali, per svuotare dalla mediocrità i suoi incontri trasformandoli in scontri. Perciò la sua lingua doveva sostenere le prodezze del suo braccio perché a lui succedeva così: aveva sempre bisogno di una ragione di più per vincere e ciò non gli bastava se in qualche modo non inventava il pretesto per insultare il malcapitato arbitro o giudice di linea che sia e nel frattempo irretire l’avversario incantando il pubblico con soluzioni balistiche proibite al resto degli avversari.

Proprio per questo LUI era un’altra cosa: la sua immortalità tennistica, racchiusa nel tempo e nello spazio dei gesti diversi, risplende dell’esclusiva grande bellezza di un inimitabile e pressoché scomparso gioco di volo.

Vincenzo Filippo Bumbica