Intervista a Giovanni Gastel: “Fotografo quello che vedo, non ciò che appare”

Giovanni Gastel nasce a Milano il 27 dicembre 1955, da Giuseppe Gastel e da Ida Visconti di Modrone, l’ultimo di sette figli.
Nel 1967, all’età di dodici anni, Gastel inizia a mostrare la sua vocazione artistica, entrando a far parte di compagnie di teatro sperimentale e, parallelamente, coltivando la passione per la poesia, che sfocerà con la pubblicazione di una raccolta intitolata “Casbah”.
Negli anni Settanta avviene il suo primo contatto con la fotografia. Da quel momento, ha inizio un lungo periodo di apprendistato fino a quando non gli verrà offerta la possibilità di lavorare per la casa d’aste Christie’s.
La svolta avviene nel 1981 quando il suo agente lo avvicina al mondo della moda, prima sulla rivista Annabella, poi Vogue Italia e poi alle riviste Mondo Uomo e Donna.

Da questo momento, la sua attività professionale s’intensifica e inizia a collaborare con le più prestigiose testate di moda sia in Italia che all’estero, soprattutto a Parigi.
Elabora proprio in questi anni d’intenso impegno professionale il suo stile inconfondibile, caratterizzato da una poetica ironia, mentre la sua passione per l’arte lo porta ad introdurre nelle fotografie il gusto per una composizione equilibrata. Traendo ispirazione anche dallo studio dell’arte rinascimentale, Gastel, si rifà costantemente ad un’ideale di eleganza, che ha respirato sin dall’infanzia, soprattutto grazie alla madre.
Intorno alla metà degli anni Ottanta, fonda la Gastel&Associati, con la quale intende promuovere l’inserimento nel mondo professionale di giovani fotografi.
Il suo impegno attivo nel mondo della fotografia lo avvicina anche all’Associazione Fotografi Italiani Professionisti, di cui poi sarà anche presidente e, successivamente, presidente onorario. La consacrazione artistica avviene nel 1997, quando la Triennale di Milano gli dedica una mostra personale, curata dallo storico d’arte contemporanea, Germano Celant, in cui vengono presentate circa 200 fotografie, testimonianza della sua lunga e prolifica carriera. Gastel utilizza le tecniche “old mix”, quelle a incrocio, le rielaborazioni pittoriche, gli sdoppiamenti e le stratificazioni, fino al ritocco digitale.

Nel 2002, nell’ambito della manifestazione La Kore Oscar della Moda, ha ricevuto l’Oscar per la fotografia.
Presidente onorario dell’Associazione Fotografi Italiani Professionisti e membro permanente del Museo Polaroid di Chicago, svolge la sua attività lavorativa nel suo studio in Via Tortona a Milano, dove continua a coltivare la sua passione per la poesia – l’ultima raccolta ha per titolo Cinquanta – e per la ricerca fotografica al di fuori degli schemi della moda.

Foto di Francesco Bertola

In realtà, Giovanni Gastel è un uomo che non avrebbe bisogno di presentazioni. Fotografo di fama internazionale, poeta, persona colta, aristocratica, galante ed elegante in ogni aspetto. Le origini aristocratiche si fanno notare quasi immediatamente, non tanto per il modo di parlare, ma per come si porge non appena si apre la nostra conversazione. E’ una figura che emana sentimento in tutto quello che dice e poi fa; che concede risposte poetiche ed utilizza ogni parola soppesandone il significato che poi darà all’intera frase. Col suo stile di vita, il suo atteggiamento e il suo modo di presentarsi, che va oltre la mera esibizione di eleganza nei lavori che ci sottopone, intende definire in modo inequivocabile i tratti che lo distinguono da chiunque altro.

D’altronde lo potrete leggere nelle risposte che ci ha concesso: siamo unici al mondo, ed è proprio questa, l’unicità, che dovremmo far risaltare sempre.

Foto di Frigerio

Ha mostrato di avere una predisposizione artistica fin dalla tenera età: com’è nato il suo amore per l’arte e quanto ha contribuito la sua famiglia ad alimentare la sua passione?

Io sono figlio di un’unione un po’ bizzarra: mio padre era un uomo d’affari che ha sposato una Visconti di Modrone, donna dell’altissima aristocrazia. Da parte di mamma c’era una grandissima passione per l’arte, sfociata anni prima nella grandissima produzione con Luchino Visconti (uno dei più grandi registi e sceneggiatori italiani); mio padre un po’ meno, vista la sua passione per gli affari e i numeri. Nonostante questo, la congruenza di due educazioni così diverse, mi ha in qualche modo stimolato molto. Inoltre, direi che nel mondo della casa Visconti, l’arte è sempre stata fondamentale. Ho un’aneddoto divertente per far capire quanto l’arte fosse influente nella mia famiglia: dato un certo avvenimento, chiesi in dono un motorino e invece mia madre mi rispose regalandomi una cassa di testi di Gustave Flaubert in francese. L’arte era una presenza importante e lo si poteva notare da ogni cosa; come quell’altra volta in cui una delle mie sorelle, Maria Cristina, diede vita ad una compagnia di teatro. Per una commedia in particolare mi scrisse una deliziosa lettera in cui in maniera molto professionale chiedeva il mio aiuto per mettere in scena una delle parti (all’epoca io avevo 12 anni e lei era molto più grande di me). Così ho incontrato l’arte, grazie al teatro: in maniera semplice e naturale, e così non è più andata via.

Ha iniziato a muovere i primi passi nel mondo dell’arte attraverso il teatro e la poesia, ma è con la fotografia che ha messo in luce tutto il suo talento: c’è un episodio in particolare che ha fatto scattare in lei questo amore?

In realtà, al’inizio, il rapporto con la fotografia è stato un po’ forzato. A 16 stavo con una ragazzina che amavo tantissimo, fu lei a spingermi, quasi, nelle braccia di questa forma di arte. Vedeva qualcosa di speciale nei miei scatti, allora dilettantistici. Chiamai il mio primo studio Alessandra’s Studios, proprio per dedicarlo a lei: d’altronde era stata lei a spingermi in questo mondo. Negli anni le ho dato ragione, probabilmente non sarei qui adesso, facendo questo mestiere, se non fosse stato per lei. E’ stato un amore enorme, indescrivibile, che ancora oggi non ha trovato fine.

La sua fotografia, oltre ad essere indescrivibilmente sentita, spiccatamente ironica e profondamente elegante, è in grado di trasmettere mille emozioni. Com’è possibile creare una magia del genere da dietro un obbiettivo?

Sono convinto che, qualsiasi sia la forma espressiva su cui si vuole lavorare, il punto centrale sia quello del rompere il diaframma che divide ciò che si è, da ciò che si fa. Bisogna abbattere questa barriera per far sentire a chi sta vedendo e quindi vivendo la tua arte, la sincerità delle tue emozioni, del tuo racconto. La fotografia parla possibilmente di moda, di ritratto, ma fondamentalmente parla di te, di come le cose e le persone entrino dentro di te, che non sei uno specchio, ma un filtro attraverso cui passano colori, gioia, la tua cultura, quello che sei, e poi escono nuovamente sotto forma di reinterpretazione. Hanno un pò quel rapporto col reale, le fotografie: il reale è un movimento costante, noi invece siamo in staticità perenne. Noi alludiamo al reale e costruiamo mondi paralleli. C’è chi preferisce lavorare su ciò che lo separa dagli altri, ma capisco che solo in pochissimi possono e vogliono farlo.

È abituato a stare dietro l’inquadratura, ma, quando succede, come vive l’esperienza di stare davanti l’obbiettivo?

Lo stare dietro all’obiettivo ti insegna che cosa dovrebbe fare chi sta davanti, quindi, in qualche modo, aprirsi. Io dico sempre che un ritratto riuscito è sempre un’arte di seduzione che intercorre, anche per centesimi di secondo, tra il fotografato e il fotografo. Il discorso è identico anche se parliamo di oggetti davanti all’obiettivo. E’ una relazione di seduzione e sentimento quello che rende così particolare questo rapporto.

I suoi scatti sono innumerevoli e bellissimi. Tuttavia, ce n’è uno che preferisce e che le è rimasto inciso nella mente e nel cuore?

Le fotografie per me sono come messaggi dentro ad una bottiglia. Scrivo quando sono solo, di me, dei miei sentimenti, della mia interpretazione delle cose, delle persone, delle situazioni e poi li ributto nel mare. Chi li raccoglierà, non dovrà tanto capire quello che ho scritto, ma, piuttosto, dovrebbe capire che io sono esistito. Per cui, sono in qualche modo molto legato al messaggio che scriverò oggi, tutto il resto è già passato. Vivo molto nel tempo, infatti penso che l’unico tempo reale sia il presente. Aderisco molto a quello che sto facendo in questo momento, tutto il resto è già nell’oceano, nel mare della comunicazione e viaggia verso chi deve in qualche modo ricreare le opere, che sono macchine per pensare. Metà del lavoro lo deve compiere chi guarda, chi osserva: se ho svolto correttamente il mio compito, inserirò la necessità di rileggere l’opera con un’adesione personale. Quindi, per risponderti: sì, ho alcune foto che per me sono state importanti perché le ricollego a momenti fondamentali, però non sono particolarmente legato a nessuna di esse.

Attraverso i social, ci sentiamo tutti un po’ fotografi. Eppure la fotografia è una disciplina complessa e affascinante. Cosa consiglierebbe ad un ragazzo che vuole intraprendere questa carriera?

A riguardo è importante fare una puntualizzazione, e cioè che è successo qualcosa che ai fotografi professionisti non deve preoccupare. La fotografia si è come sdoppiata attraverso questo nuovo mondo: da una parte è diventata una lingua che tutto il mondo ha imparato a parlare o, quantomeno, tenta di farlo. Però, è importante sottolineare, come quel linguaggio sia più una “comunicazione di informazioni”. Prendi per esempio una fotografia legata al cibo, tutti ormai ne scattano quando stanno per mangiare, ma non ha niente in comune e mai ne avrà con un nudo artistico. Questa forma di linguaggio non lede minimamente il prodotto professionale. Io sono felicissimo che la fotografia sia diventata la lingua di questo momento, nonostante ci troviamo in una fase un pò di “bulimia”, in cui è tutto facile e questa forma di comunicazione viene stra usata. E’ come utilizzare parole che sono sinonimi per descrivere la stessa cosa: indicano la stessa immagine, ma un termine è per uso letterario, l’altro è usato nel gergo come comunicazione nel mondo. Adesso, se si vuole passare ad essere un fotografo professionista, bisogna ricordarsi del fatto che un’importanza relativa ormai la si dà alla macchina che si usa per fotografare. In realtà, si dovrebbe incentrare il proprio lavoro sulla differenza, cambiando tipologia di linguaggio, punto di vista, di comunicazione con l’anima. Bisogna trovare la propria peculiarità, la propria identità, dato che siamo esseri unici al mondo anche sotto il punto di vista genetico. Lavorare su quello e costruire un’estetica adatta e conseguenziale. Vedere il mondo e descriverlo con quella leggera differenza che ci rende unici dagli altri, tramite la nostra personalità, la nostra storia. Ormai ci si è abituati a lavorare sulle cose in comune, ci confortiamo attraverso le similitudini che ci rendono affini agli altri. Chi sceglie una via artistica deve lavorare proprio sull’opposto, bisogna che accarezzi la propria differenza.

Nel suo studio di Milano continua la sua ricerca fotografica al di fuori degli schemi della moda. Ha già dei nuovi progetti in mente? Ci darebbe qualche anticipazione?

Per fortuna di Dio ne ho sempre! Nel senso che io ritengo che creare per me sia un’esigenza. So solo che se fotografo, se scrivo poesie, sto bene; se non lo faccio, sto male, anche fisicamente. Se per gli altri sto facendo arte in questa maniera, a me può solo fare piacere, ma è solo il loro punto di vista, a me non interessa. Continuo a lavorare come un pazzo: scrivo libri, faccio campagne, organizzo mostre. Non ho un genere, non mi mi classifico, non riesco a farlo. Posso e riesco a prendere ispirazione da qualsiasi cosa, per questo credo che identificarmi in qualcosa che la società è in grado di riconoscere, sia riduttivo.

Alessia Cavallaro