Il superpotere del “batterio cadavere”: come Davide sconfigge Golia

Curare il cancro può essere definita come la sfida della scienza del nostro tempo, per quanto la storia della ricerca oncologica abbia, in realtà, radici ben più antiche. La natura eterogenea del cancro, infatti, fa di ogni paziente un caso a sé stante e questo rende difficile costruire un modello di studio valido e universale su cui disegnare un piano d’attacco.
La battaglia contro un tumore è, in fondo, pura strategia. Nell’affrontarla, non c’è un’idea realmente migliore di un’altra, solo una più adatta al caso specifico. L’abilità degli specialisti sta nel saperla identificare e nel farlo in fretta, il più in fretta possibile.
Nonostante la medicina abbia fatto, in quest’ambito, enormi progressi, portando a cure  migliorate e, ormai, decisamente più specifiche meno invasive del passato, numerosi sono gli ostacoli all’efficacia di una terapia. Uno dei maggiori è rappresentato dalla natura tridimensionale del tumore in sé e per sé. Esso, infatti, non è altro che una massa di cellule che cresce in ogni direzione ed in maniera spropositata comprimendo le cellule situate nella sua parte centrale e costringendole a vivere in penuria di ossigeno. Purtroppo, il meccanismo di azione di quasi tutti i farmaci usati in oncologia, siano essi radio o chemioterapici, sfrutta la particolare reattività dell’ossigeno. L’esistenza di un nucleo di cellule tumorali che vivono in sua assenza, e che perciò risulteranno resistenti all’azione dei farmaci, rende la malattia estremamente difficile da debellare.
Una nuova arma, però, potrebbe essere nelle mani dei medici grazie all’aiuto di  qualcosa di letteralmente microscopico: un batterio, il Clostridium sporogenes.
Il genere Clostridium ospita una serie di batteri tristemente noti per la loro azione devastante, come il Clostridium tetani  e il C. botulinum, ma anche il C. perfrigens, agente eziologico della gangrena gassosa. Più comunemente, si tratta di una grossa famiglia di microrganismi coinvolti nel fenomeno della fermentazione e della putrefazione che proliferano meravigliosamente in assenza di ossigeno e, anzi, lo temono in quanto in grado di ucciderli. Per questa sua particolarità, già nel 2011 un gruppo di ricerca delle Università di Nottigham e Maastricht ha ben pensato di usare il C. sporogenes per giungere al cuore del tumore e aiutarne la distruzione. In particolare, osservarono che il batterio, quando iniettato sono forma di spore nei pazienti, è in grado di colonizzare il nucleo privo di ossigeno del tumore e produrre un enzima fondamentale per l’attivazione di un particolare farmaco antitumorale. Il principale vantaggio di ciò è la possibilità di rendere attivi gli effetti “killer” dei chemioterapici solo nella sede del tumore, riducendo di molto gli effetti collaterali ed il danno indesiderato ai tessuti circostanti. L’iniezione in un paziente di spore vitali di un batterio, tuttavia, non avviene senza rischi. In particolare, in condizioni di immunodepressione, come quelle che spesso si verificano nella terapia oncologica, non è da escludere l’eventualità di un’infezione opportunistica da parte da ciò che dovrebbe curare. Una possibile soluzione al problema è stata presentata poco tempo fa dai ricercatori dell’Università di Singapore i quali hanno dimostrato come sia possibile ottenere risultati promettenti anche mediante derivati non vitali del batterio.  Il C. sporogenes inattivato al calore, così come il mezzo di coltura contenente le secrezioni del batterio, è in grado di ridurre drasticamente la vitalità di cellule tumorali in colture bidimensionali e tridimensionali. L’effetto sembra essere legato ad una qualche sostanza rilasciata dal batterio, non ancora identificata, il cui isolamento è tuttora in fase di studio.
Questa scoperta, qualora confermata, apre la strada ad una nuova epoca nella ricerca oncologica. L’utilizzo di un batterio simbionte dalla complessa storia evolutiva, come questa specie di Clostridium, in un ambito così complesso è, infatti, qualcosa di fortemente innovativo. Consentirebbe non solo di rendere più efficaci le terapie attuali, riducendo gli effetti collaterali, bensì consentirebbe lo sviluppo di nuovi approcci terapeutici soprattutto nei pazienti in cui non è possibile intervenire con la chirurgia. Una scoperta che ha in sé del sensazionale, ma è al contempo ancora acerba. Siamo infatti lontani dal risultato applicativo, ma molto più vicini ad una terapia efficace di quanto non fossimo in passato.
Non resta che aspettare ed avere fiducia: il batterio cadavere può riservarci ancora molte incredibili sorprese!
Silvia D'Amico