I giorni del vino e delle rose di George Best

“Quelli erano giorni sì, proprio quei giorni che al mondo non si poteva chiedere di più, noi ballavamo anche senza musica e nel nostro cuore c’era molto di più”.

Inframmezzate dal dondolio delle note, era come se le parole del ritornello di quella canzone recitassero il manifesto programmatico di un’epoca singolare in piena trasformazione: i fantasmagorici anni sessanta.

Erano anche i giorni del vino e delle rose per George Best: immagini allegoriche del peccato e della purezza, compagnie inseparabili nella vita di un uomo controverso, assoluto protagonista di quel tempo, unico e originale interprete di un modo diverso di concepire il calcio. Puro si come un angelo scorrazzava felice appresso un pallone; maledetto seguace del demonio ritrovava un’altra vita in fondo a un bicchiere di wisky. Una cornice tutta stucchi e oro, fatta di presenze femminili mozzafiato al seguito e fiammanti bolidi dal costo proibitivo, sembrava fatta apposta per risaltare ancora di più il ritratto di quell’irlandese dal vivere sfolgorante: bello di una bellezza intensa, malinconica e gioiosa allo stesso tempo, eccentrico nel suo modo pubblico e privato di proporsi, inimitabile simbolo di modernità assoluta col suo modo creativo e spettacolare di essere se stesso.

E se c’era una cosa che faceva impazzire i tifosi, era la voglia naif e disincantata di coniugare con lo stesso verbo l’esistenza e la professione. Cominciò ben presto a squassare col suo talento, il football ingessato e parruccone d’oltremanica. Un giorno del 1961 in un campetto di periferia a Belfast, suo borgo natio, apparve ragazzino appena quindicenne: col suo caracollare quasi indolente che diventava irridente facendo ammattire il suo marcatore, ammaliò il buon Bob Bishop, osservatore della Manchester United, che inviò alla sede del club un telegramma dal contenuto inequivocabile:” Ho scoperto un genio”. Così quel fenomeno dai piedi fatati che aveva rubato la scena segnando perfino due reti contro una squadra formata da ragazzi due anni più grandi, fu d’acchito chiamato alla corte dell’eminenza grigia dei Reds Devils: il padre padrone Bob Paisley.

La leggenda dei numeri sette rossi, che avrebbe poi tra gli altri annoverati Bryan Robson, Cristiano Ronaldo, Eric Cantona, David Beckam e oggi Angel Di Maria, ebbe inizio da queste sue gesta.
Una splendida carriera in cui forse i risultati non sono stati pari alle sue enormi qualità, ma dove spiccano, una coppa d’Inghilterra, due campionati inglesi e la Coppa dei Campioni del 1968, vinta quasi da solo, succedanea al pallone d’oro dello stesso anno. Non era solo calcio però, quello che George Best avrebbe vissuto: i migliori anni della sua vita sarebbero finiti però con il rovescio della medaglia. Il viaggio godereccio, edonistico e trasgressivo, iniziato per colmare una solitudine interiore che sfociava in un’inestinguibile voglia di libertà, lo condusse a tappe in altri luoghi. Dopo l’amata Manchester e un biennio ancora sull’isola, approdò a Los Angeles nel rutilante mondo del soccer americano per poi ritornare in patria e, tranne una capatina in Australia, chiudere qui il suo itinerario calcistico.

E siccome la classe non è acqua, al più nel suo caso si trattava di altro liquido, quello ambrato che paradossalmente sembrava ispirarlo, anche in questi frangenti George Best regalò il meglio del suo campionario: guizzi vincenti e serpentine ubriacanti riuscivano a sprazzi però a placare la sua crescente inquietudine, quella di un grande artista che presto lascerà la scena e sa, poiché tale, come uscire tra gli applausi.

Questo avviene nel 1976: la grande Olanda, espressione totale della più sorprendente rivoluzione culturale calcistica che sia mai esistita, affronta in un’amichevole, all’apparenza anonima poiché organizzata solo per scopi commerciali, la coraggiosa Irlanda del Nord, degna rappresentante di un football che abbina orgoglio e passione. Maglietta color arancio e numero quattordici stampato sulla schiena saltella Johan Cruyff, lo spocchioso capitano di quella squadra da urlo, da perfetto capo classe, la guida sul campo come un’allegra scolaresca al parco dei divertimenti.

Dall’altra parte del campo in divisa verde, in una nazionale povera di talenti George Best passeggia ormai sul dorato viale del tramonto e però come ai vecchi tempi, pronto a caracollare sul prato, zazzera al vento, per disegnare qualche svolazzo vincente da par suo. E al quinto minuto del primo tempo il mattocchio irlandese, s’illumina d’immenso: dopo aver dribblato due uomini invece di andare verso la porta, punta diritto il divino tulipano, fa una finta di corpo e gli rifila un estemporaneo tunnel. Dopodiché lo apostrofa così: ”Tu sei il migliore perché io non ne ho il tempo”.
Ancora una volta eccessivo, ma in questo caso a maggior ragione, poiché quel damerino di Amsterdam onusto di gloria e carico di trofei: tre coppe dei campioni consecutive e relativi palloni d’oro, è il re Mida del calcio, ma rappresenta la sua antitesi.

Da questo episodio ai confini della realtà, emerge incontenibile la consapevolezza fondamentale nel ritenersi il migliore di tutti, a rappresentare la risorsa migliore di un uomo intelligente, sensibile e delicato, ma anche diverso, estemporaneo e provocatorio che fece della trasgressione un’arte, del vizio una virtù e del piacere un’abitudine. E quello di bere smodatamente in un crescendo di auto distruzione totale, non gli tolse il rispetto per il suo profilo umano e l’ammirazione per la sua classe sconfinata da parte del mondo anche extra sportivo.

La morte non venne all’improvviso a prendersi le sue labbra e i suoi occhi, ma quando George la guardò in faccia, capì finalmente come aveva vissuto e perché stava morendo. L’ombra del rimpianto si allungò fino a spegnere il residuo spicchio di luce che illuminò le sue ultime parole: ”Non morite come me”.

Il venticinque novembre del 2005, a soli cinquantanove anni, scomparve anche l’ultimo Mohicano della fantasia pallonara al potere.

Vincenzo Filippo Bumbica