I capolavori “stupefacenti” degli scrittori dannati

Da che mondo è mondo certa letteratura richiama subito, nell’immaginario di noi tutti, l’uso spropositato di alcool, sostanze stupefacenti, esperienze sessuali estreme e stile di vita decadente. Ma vi siete mai chiesti perché questo connubio è così ricorrente? Secondo alcuni artisti la cocaina, l’eroina, l’hashish, la marijuana, gli alcolici e perché no anche il caffè, aiutano a stimolare l’immaginazione e ad aprire le porte della percezione. Spesso, grazie a questi stimolanti, sono nate le loro opere di maggior successo. Chi l’avrebbe mai detto ad esempio che persino William Shakespeare, il più grande drammaturgo inglese della storia, faceva uso di marijuana prima di comporre?

Come non cominciare citando la famosissima cerchia dei cosiddetti “poeti maledetti”, nata in Francia nella seconda metà dell’Ottocento, con a capo Charles Baudelaire e alcuni suoi contemporanei, tra cui Paul Verlaine, Arthur Rimbaud e Stéphane Mallarmé, i quali entrarono a far parte del Club des Hashischins (Club dell’Hashish) all’interno del quale si autoprovocavano allucinazioni sottoponendosi a droghe, prima fra tutte l’hashish, sia come aiuto  per la scrittura sia per manifestare il loro rifiuto verso la società contemporanea.

L’hashish ispirò ad esempio Baudelaire “I fiori del male” (“Les Fleurs du mal”), la sua raccolta lirica più famosa, dove si palesa la predilezione del poeta per il vino. Il suo saggio “I paradisi artificiali” (Les Paradis artificielspoi, descrive esattamente le sensazioni provate dall’autore dopo l’assunzione di sostanze quali l’oppio e il vino. Proprio con l’espressione “paradisi artificiali” oggi, si designano infatti le droghe di qualsiasi tipo, soprattutto gli allucinogeni come la mescalina o l’LSD. Nel saggio si passa da un iniziale elogio della droga quale strumento umano per soddisfare il gusto dell’infinito“, ad una irrimediabile condanna poiché l’uomo la cui immaginazione, paralizzata, non sia più in grado di funzionare senza il soccorso dell’hashish o dell’oppionon può essere considerato un vero artista.

Fu Paul Verlaine, a dedicare a i poeti maledetti (“Les Poètes maudits”) l’omonima opera del 1884, della quale cerchia fa parte anche l’amante Rimbaud, altro famoso dannato della letteratura. Quest’ultimo parla degli anni della tormentata storia tra i due nel capolavoro Una stagione all’inferno”. Qui il poeta racconta di come scrivessero seguendo la tecnica della voyance, una percezione dilatata che oltrepassa i cinque sensi, aiutata dalle esperienze allucinatorie indotte da alcool e droghe.

Passando all’età contemporanea, lo scrittore russo Michail Bulgakov scrisse Morfina”, una sorta di diario autobiografico poiché lo stesso Bulgakov fu dipendente dalla morfina dopo averla assunta una prima volta a causa di un attacco allergico. L’opera racconta che una sera Poljakov, in preda a forti dolori intestinali, riceve un’iniezione di morfina e da lì inizia una vera e propria tossicodipendenza facilitata anche dalla disponibilità di morfina. Nonostante i primi tempi ciò non lo disturbi sul lavoro e nei rapporti con gli altri, in seguito sopraggiunge l’assuefazione che lo rende vittima di allucinazioni.

Dedito ai piaceri dell’alcool fu sicuramente Jack Kerouac, il padre della Beat generation, il movimento che  rivoluzionò il campo artistico, poetico e letterario nel secondo dopoguerra degli Stati Uniti. La poetica di Kerouac può essere ben rappresentata con l’idea del viaggio: fisico per le strade del mondo; ma soprattutto un trip mentale, generato da un mix di alcool e droghe. Tutti concetti che ritroviamo nel suo capolavoro “Sulla strada” (“On the Road”), romanzo autobiografico basato su una serie di viaggi in automobile dello scrittore, attraverso gli Stati Uniti.

Ispirato dai fumi dell’alcool poi fu anche lo scrittore “dark” del Romanticismo americano Edgar Allan Poe, il quale dipendente dal bere, fu vittima di continue visioni e distorsioni della realtà che lo portarono a creare molti dei suoi racconti del terrore. L’alcool stesso inoltre è protagonista di molte sue storie: il narratore de Il gatto nero” è un alcolista cronico, così come lo è Fortunato de “Il barilotto di Amontillado” e pure Arthur Gordon Pym, lo sfortunato avventuriero protagonista del suo famoso romanzo breve. Un altro maestro dell’horror Stephen King, affermò che per scrivere il noto romanzo Cujo”, bevve così tante birre e assunse droghe da non ricordare quasi nulla della stesura di questo libro.

Non si può sicuramente non citare Charles Bukowski, il poeta e scrittore statunitense contemporaneo, simbolo del realismo sporco. Assai noto è il suo vizio del bere appreso quando quattordicenne cerca di trovare una via di fuga dalle angherie del padre e che lo accompagnerà per il resto della vita. Autore di centinaia di racconti, tra cui quelli della raccolta “Compagno di sbronze” , di sei romanzi e migliaia di poesie; nei suoi libri parla della sua vita senza riserve, le esperienze sessuali torbide, le relazioni burrascose e ovviamente il rapporto maniacale con l’alcool, manifestato da alcune celebri frasi come: “Quando sei felice bevi per festeggiare. Quando sei triste bevi per dimenticare, quando non hai nulla per essere triste o essere felice, bevi per fare accadere qualcosa.”

Tra i talenti letterari nostrani sappiamo dalle parole di Alberto Moravia, che la scrittrice Elsa Morante, sua ex moglie, fece uso di mescalina, seppur sotto il controllo di un medico, per stimolare la sua creatività; e di LSD il cui nome si ritrova nelle iniziali dei titoli di alcuni suoi componimenti come “La sera domenicale” e “La smania dello scandalo”. L’autrice dichiarò che sotto effetti di droghe: “le cose naturali le sembravano straordinarie, mentre i prodotti degli uomini li vedeva orribili, spaventosi. Per esempio, una foglia può diventare qualcosa di meraviglioso, la Gioconda di Leonardo una miseria.”

 
Alice Spoto