Gigi Riva, l’uomo dei sogni nell’isola del tesoro

Piantata nel bel mezzo del Mediterraneo dove luccica fiera e indipendente la Sardegna non è solo un’isola, ma rappresenta un mondo a parte: un luogo speciale che mostra le sue tante facce particolari concentrate in tutta una serie di ossimori: bella e al contempo aspra; inaccessibile però invitante; misteriosa e oscura ma anche splendente nella sua solarità. Insomma un moderno paese dei balocchi che si alterna a un antico paradiso di sogni perduti.

E fu in quella latitudine che, per un incanto magico, un giorno approdò un calciatore libero e selvaggio, forte nel cuore e puro nell’anima: Luigi Riva detto Gigi, quello che poi sarebbe diventato GIGGIRRIVA, il simbolo del popolo sardo: un uomo senza macchia e senza paura, capace di rivendicare attraverso la sua storia calcistica l’orgoglio di quella che diverrà la sua gente e la passione dell’appartenenza conquistata.

Era l’anno 1963 e quel promettente attaccante acquistato dal Cagliari che militava in serie B, ma progettava l’assalto al massimo campionato, proveniva dal Legnano una squadra di serie C vicino a Leggiuno in provincia di Varese dove egli era nato nel 1942.

Figlio di un’infanzia difficile, ben presto orfano aveva assaggiato la dura disciplina di un collegio religioso che gli rimase attaccata per tutta la vita, quel giovanotto silenzioso, timido e spaesato a contatto col nuovo ambiente sulle prime faticò a ritrovarsi ma poi confortato dalla genuinità sentimentale delle persone della più varia estrazione sociale ed esaltato da una ribollente voglia di riscatto, si sciolse come neve al sole di fronte a tutto quel calore umano e diventò un degno figlio adottivo dell’isola. Baldo vessillifero di quel ruolo si mise al servizio della causa comune sprigionando le sue eccellenti qualità tecniche, agonistiche e caratteriali.

La promozione nella massima serie fu l’abbrivio per lanciare i rossoblù verso traguardi sempre più proibiti, tanto parevano più che ambiziosi, lontani anni luce. Campionato dopo campionato Gigi, divenuto ormai insostituibile primo violino di un’orchestra dalle note trionfali in cui suonavano musicisti reinventati, riciclati, giubilati o sconosciuti diretta da un inimitabile maestro come Manlio Scopigno, detto il filosofo per la sua libertaria visione di vita, a suon di gol trascinò un’intera isola verso un sogno mai sognato e fino allora neanche pronunciato: lo scudetto.

A coronamento di quella esaltante stagione calcistica 1969-70, Gigi Riva riconfermò per la terza il primato di capocannoniere assoluto della massima serie, titolo già conquistato l’anno prima che si aggiunse a quello ottenuto nella stagione 1966-67, iscrivendo di fatto a pieno titolo e a caratteri cubitali il suo nome sull’albo d’oro marcatori del calcio italiano.

Rombo di tuono, come efficacemente era stato ribattezzato dal più originale dei giornalisti sportivi italiani Gianni Brera, si fece valere eccome anche a livello di prestazioni con la nazionale azzurra, risultati e gol parlano chiaro : campione europeo nel 1968; vicecampione del mondo a Messico 70 e un totale di 35 reti in 42 partite, record tuttora imbattuto, incappando ahimè anche in due gravi infortuni alle gambe, ambedue rotte  in diverse occasioni, a rimarcare quanto fosse un irriducibile temerario.

In quegli anni tanti e di qualità furono i suoi rivali che gli contesero, oltre la corona di tiratore scelto, le prime pagine dei quotidiani sportivi, tra i più acerrimi si ricordano: lo svolazzante uccellino svedese, il viola Kurt Hamrin; l’immarcescibile collezionista di squadre e di gol José Altafini; il fine dicitore calcistico dalla verve polemica, l’intelligente e linguacciuto Gianni Rivera e il suo eterno rivale, la mezzala dal dribbling seriale Sandro Mazzola; il ragazzo venuto dal sud a corte dell’imperatore, l’agile Pietro Anastasi; l’uomo che non doveva chiedere mai, il  prode combattente Roberto Boninsegna; Long John alias il caracollante profeta biancazzurro Giorgio Chinaglia; l’elegante fiore sbocciato dalla primavera bianconera, il torinese Roberto Bettega; lo scatenato purosangue imbizzarrito Paolo Pulici, il letale incantatore delle difese avversarie Beppe Savoldi e lo spietato opportunista dalle dinoccolate movenze Pierino Prati.

Rispetto a tutti questi, Riva era un giocatore atipico, un centravanti truccato da ala sinistra e dunque non un paracarro di vecchio stampo e tutto d’un pezzo, bensì un attaccante potente, veloce, acrobatico e concreto. In più essendo mancino, il piede destro gli serviva solo per guidare, era capace di accentrarsi spesso per andare là dove lo portava il cuore e cioè a conquistare un altro cuore, quello dell’area avversaria, per concludere in porta da par suo.

Poteva un tipo simile tranciare quella corrispondenza d’amorosi sensi con quella terra e con i suoi abitanti trasversalmente coinvolti pastori e banditi compresi? Decisamente no! Egli non cambiò mai casacca, rifiutando perfino le allettanti avances de beacoup d’argent che quello squisito intenditore di calcio che corrispondeva al nome dell’avvocato Gianni Agnelli, gli offrì per conto della vecchia signora del calcio italiano. Una decisione storica per quei tempi, inconsueta e controproducente per lui considerato quello che avrebbe vinto e il corrispettivo ritorno  d’immagine.

Ma Gigi era fatto così: non avrebbe in alcun modo barattato i suoi valori perche allora si sarebbe sentito come una delle tante canne al vento così amaramente descritte nel suo romanzo dalla grande scrittrice sarda Grazia Deledda. Si portò appresso intatta la sua filosofia di vita quando appese le scarpette al chiodo e anche in seguito come dirigente accompagnatore della nazionale italiana di calcio.

Ancor oggi, come prima e più di prima Gigi Riva rimane ben impresso nella memoria collettiva a tal punto che pochi giorni addietro, ha ottenuto un ulteriore e pregevole riconoscimento per esser stato un fulgido esempio di professionalità sportiva. Nell’occasione i vari filmati proiettati per raccontare le sue gesta epiche diventano testimoni di un atto d’amore nei suoi confronti che si amplificano a dismisura in un effetto magico: pare che Gigi non entri in area ma che vi si catapulti; non tiri in porta ma cannoneggi col risultato che la rete non si gonfi ma si squassi e addirittura nel gioco aereo egli voli, troneggiando come minimo d’una spanna sugli avversari.

Un tipo così diverso piacque molto a Fabrizio De Andrè quando s’incontrarono. Il cantautore genovese forse avrebbe volentieri raccontato nelle sue strofe la storia di un ragazzo umile, sensibile e determinato che aveva imparato il come si fa a essere un uomo vero per rappresentare sé stesso e la sua gente, assurto inevitabilmente a personaggio e quasi a suo dispetto, osannato come un idolo. Da qui a considerarlo un mito vivente il passo è breve e quindi come tale egli appartiene alla leggenda: quella degli uomini che fecero l’impresa.

Vincenzo Filippo Bumbica