Franz Beckenbauer, il segno del comando di un uomo senza tempo

Monaco di Baviera 1963: c’è un grande prato verde dove giocano ragazzi che si chiamano speranze, quello è il vasto manto erboso dell’Olympiastadion, lo stadio del Bayern. Non ancora ventenni Sepp Maier portiere, Franz Beckenbauer mediano e Gerd Muller attaccante, già costituiscono la spina dorsale di una squadra in crescendo. Soprattutto quel piccolo Cesare del centrocampo incanta per la sua straordinaria visione di gioco e lascia intravedere sprazzi di incontenibile autorevolezza. D’altronde che fosse già dotato di un certo caratterino l’imberbe ragazzino lo aveva dimostrato prendendo una decisione tale da capovolgere il suo destino. Estate 1959, la semifinale di un torneo giovanile cittadino vede di fronte la SC Monaco 1906, la sua prima squadra, contro il Monaco 1860: purtroppo si scatena in campo una furibonda rissa che il permaloso Franz ricorderà qualche anno dopo, rifiutando sdegnoso lo scontato approdo tra le file di quei concittadini biancazzurri. Così finisce inaspettatamente per firmare con i dirimpettai bavaresi.

Succede pure all’alba di quell’anno che Beckenbauer chiamato tra le file dell’Under tedesca sull’abbrivio di quella rara precocità calcistica, ne viene escluso subito quando si scopre che la sua ragazza è rimasta incinta e, cosa ancor più grave, che lui non ha la minima intenzione di sposarla perché rifiuta questo compromesso. Deciso a cavalcare la tigre dello scandalo oppone un netto diniego al diktat della federazione. Questo gesto alla fine interpretato come segnale di sicura personalità, salva il bel tomo che per l’autorevole intervento del suo allenatore viene reintegrato nella rosa.

Alla fine della stagione1966, il Bayern in piena crisi economica decide di cedere il suo gioiello più prezioso in cambio di un sontuoso assegno con tanti zeri firmato dall’Internazionale di Milano. Accade però in questo caso che la fortuna strizzi l’occhio ai Monacensi materializzandosi nelle spoglie di Pak Doo- Ik, il carneade caporale nordcoreano che infilando la porta italiana estromette gli azzurri dal mondiale. Risultato, affare saltato per la chiusura integrale delle frontiere per tutti i calciatori stranieri.

Un indizio è un indizio e tre fanno una prova: Franz, anche con lo zampino della dea bendata, sarebbe diventato un corpo e un’anima con la squadra dell’altra metà del cielo bavarese rivalutandone il rango, così come da indomito capitano avrebbe incarnato la figura del profeta che la Germania calcistica aspettava da tempo.

Il racconto della sua storia, quella di un calciatore predestinato alla gloria e conseguentemente ai fasti dell’uomo di successo, ricomincia da un piccolo passo indietro. Ritorniamo al 1963, in quel periodo nasce la Bundesliga e il presidente del club Neudecker, deluso e irritato per via del regolamento iniziale che vieta la presenza di due squadre della stessa città, saranno preferiti i più titolati cugini del Monaco 1860, costruisce ad hoc una squadra fortissima in cerca di una rivalsa immediata. Costretti a ripartire dalla serie inferiore, nel breve volgere di un anno, quei giocatori scalpitanti, ambiziosi e focosi come le loro maglie, coronano i sogni di gloria conquistando il loro legittimo posto in paradiso. Così continuano imperterriti alimentando l’escalation del club biancorosso che nella stagione 1965-66 risulta così competitivo da classificarsi al secondo posto in campionato, in coabitazione col Borussia Dortmund, ma alle spalle dei soliti rivali concittadini: gli storici ultracentenari del Monaco biancazzurro.

Sostenuta da quei tre autentici satanassi del pallone e allenata dal transfuga slavo Zlato Chaikovskj, un valente mediano con alle spalle due fasi finali dei mondiali di calcio 1950 e 1954, dove aveva trionfato a sorpresa la Germania del capitano Fritz Walter idolo assoluto del giovane Franz, quella squadra in quel contesto comincia a rappresentare per lui un’imperdibile opportunità di mettere in mostra le sue notevoli qualità tecniche e al contempo diventa un eccellente occasione per dimostrare la sua strabordante sicumera.

Passato il periodo di assestamento degli anni sessanta che tuttavia include alcune opportune rivincite e tangibili soddisfazioni, comincia nel decennio successivo per il Bayern delle meraviglie, un periodo d’oro con l’irresistibile conquista di trofei in serie in Germania e in Europa (tre coppe campioni consecutive), mentre tanti suoi giocatori con la nazionale tedesca dopo la sfortunata finale di Wembley e la magnifica illusione di Italia-Germania, diventano campioni europei nel 1972 e si annettono anche il mondo vincendo nel 1974 il titolo più prestigioso. Imprese inarrestabili come un crescendo Wagneriano da cavalcata delle valchirie, che sconfineranno nella leggenda sotto la guida di Franz Beckenbauer che da icona indimenticabile col suo braccio al collo in quella leggendaria semifinale del 1970 contro la nazionale italiana, diventa il carismatico e invincibile condottiero di ambedue le armate.

All’apice della carriera non ancora trentenne, era nato a Giesing, sobborgo di Monaco nel 1945, con le sue maestose movenze: testa alta, busto eretto e corsa morbida appariva dannatamente bello e impossibile anche fuori dal campo per via della carnagione bruna da tedesco del sud, in sintonia con quell’espressione così decisa che esaltava i suoi gradevoli lineamenti adornati da un’atipica cornice di capelli crespi.

Eppure, nonostante questo aspetto e l’elegante postura così poco tipicamente prussiani, i suoi connazionali poco leziosi e molto pragmatici, lo soprannominarono il Kaiser non fosse altro perché imponeva il segno del comando che si traduceva in un modo così carismatico d’interpretare le vari fasi d’una una partita come se impartisse ordini dall’alto del trono, tanto era a suo agio nella dimensione regale. In virtù di questa spiccata caratteristica armoniosamente sostenuta da un insieme di sublimi qualità tecnico tattiche: sopraffino tocco di palla, opportuni tempi di gioco, tiro da fuori fulminante e un incredibile senso della posizione, il cosiddetto Imperatore diviene esemplare unico tra i più grandi fuoriclasse di tutti i tempi.

La sua classe cristallina costituita anche dalle mille bolle blu del talento sgorga spumeggiante anche nella veste di viceallenatore in campo quando, in occasione della kermesse mondiale organizzata in terra tedesca, da fine e acuto stratega con rara abilità, dopo la débâcle ignominiosa subita ad opera dei cugini della DDR, convince il responsabile tecnico Schoen a rinforzare la mediana schierando il geometrico Overath, al posto dell’anarchico Netzer: da quel momento i bianchi tedeschi vincono tutte le partite sconfiggendo in una sofferta finale la favorita Olanda di Crujiff.

Il suo palmares di giocatore è un elenco infinito di cifre, titoli e riconoscimenti a cui si aggiungono quelli ottenuti da selezionatore della nazionale tedesca: vice campione a Messico 86 e vittorioso a Italia 90, è stato l’unico insieme al brasiliano Mario Zagallo a vincere un mondiale nella doppia veste di allenatore-giocatore.

Franz Beckenbauer ha rubato il tempo e asservito lo spazio inventando il ruolo di libero come nessuno mai è stato capace d’interpretare; ha ridotto il caso a un’appendice del destino e ha sempre flirtato con la vittoria discutendo talvolta anche con la sconfitta. Per di più ha corso il rischio per salire sempre più in alto: là dove osano le aquile e sognano di volare certi uomini nelle cui vene scorre un liquido speciale colorato di blu come quel cielo infinito.

Vincenzo Filippo Bumbica