“Gli Evaporati”: così migliaia di Giapponesi decidono di scomparire

Avete mai desiderato ardentemente di sparire? Lasciare tutto, far perdere ogni traccia di sé e ricominciare da capo con una nuova vita? Beh tutto questo in Giappone è pura realtà.

Li chiamano johatsu, “gli evaporati”: sono uomini e donne che decidono, ad un certo punto della loro vita, di sprofondare nell’anonimato e di tagliare i ponti con il passato, per non tornare più indietro. Nella maggior parte dei casi questa decisione è dovuta ad una profonda vergogna, in seguito ad un licenziamento o ad un fallimento personale. Preferiscono sparire, perché essa è troppo grande e difficile da sopportare. Non dimentichiamo che il Giappone è, nell’immaginario collettivo, il paese del rigore per eccellenza, dello stacanovismo, dell’onore; questa idea non è troppo distante dalla realtà e questo fenomeno ne è la dimostrazione.

Ad indagarlo è stata una coppia francese, Léna Mauger e Stéphane Remael, autrice lei e fotografo lui; hanno pubblicato un libro “The Vanished: The “Evaporated People” of Japan in Stories and Photographs” (Gli evaporati del Giappone attraverso storie e fotografie). Essi hanno iniziato nel 2008 a girare per il Giappone, ad entrare in contatto con la gente e con questa triste tendenza. “È un vero e proprio taboo, – dice la Mauger al New York Post – è qualcosa di cui non puoi realmente parlare. Le persone possono sparire perché esiste una seconda società al di sotto della società giapponese. Quando le persone scompaiono, sanno che possono trovare un modo per sopravvivere”.

Esistono delle vere e proprie città in cui gli evaporati si ritirano, vivendo in squallide stanze di alberghi. Sanya, un sobborgo nei pressi di Tokio, è una di queste. Qui la coppia francese ha incontrato Norihiro, un uomo di 50 anni “evaporato” ormai da dieci, dopo aver perso il lavoro da ingegnere. Egli racconta di aver fatto finta di andare al lavoro per un settimana dopo il licenziamento, poi in quello che sarebbe stato il giorno di paga, oppresso dalla vergogna, ha preso il treno in direzione Sanya. Ora vive lì, in una stanza senza finestre e con un nuovo nome. “Guardatemi – dice – non assomiglio a nulla. Io non sono niente. Se morissi domani, non voglio che qualcuno sia in grado di riconoscermi”.

Norihiro non è l’unico, si stima che ogni anno spariscano in questo modo oltre 100mila persone. Questo fenomeno sembra aver avuto inizio alla fine degli anni Sessanta, forse ispirato da un film intitolato “A Man Vanishes”, in cui un uomo spariva all’improvviso lasciandosi la propria vita alle spalle. A partire dal quel periodo la tendenza divenne così diffusa che si creò un vero e proprio business che raggiunse il suo apice negli anni Novanta, in seguito ad una pesante crisi economica. Singoli o vere e proprie compagnie, come la Nighttime Movers, garantivano infatti a pagamento spostamenti sicuri o simulazioni di veri e propri rapimenti. Tutt’ora, esso non sembra destinato a cessare, così come un’altra allarmante tendenza diffusissima in Giappone: quella del suicidio. Un’indagine realizzata nel 2014 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità riporta che il tasso di suicidi in Giappone è più alto del 60% rispetto al resto del mondo. Il governo sembra aver attuato dei provvedimenti in questo senso, cercando ad esempio di alleggerire il carico di lavoro, ma la cultura del rigore, del singolo sempre subordinato alla collettività e alla Nazione rimane centrale e troppo forte in questo Paese così lontano e, a volte, così difficile da comprendere.

Beatrice Anfossi