Aula vuota dopo digitalizzazione delle università
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La digitalizzazione delle università e la morte del modello tradizionale

Uno degli elefanti nella stanza della pandemia è la disruption del modello scolastico a cui l’Italia era abituata. La digitalizzazione delle università, e delle scuole in generale, è una realtà – per forza di cose. 

Facciamo un passo indietro per inquadrarci meglio come Paese e sistema: nella scuola dell’obbligo tantissimi docenti, studenti e genitori hanno visto come una sciagura l’introduzione di strumenti digitali – come il registro elettronico a suo tempo – e in generale vengono osteggiate le digitalizzazioni di libri di testo ed eserciziari. Dopotutto, sia mai che l’alunno consulti un computer o un tablet al posto di portare il tomo di matematica sulla schiena. 

Culturalmente, come società, abbiamo un inspiegabile astio nei confronti della digitalizzazione e delle meraviglie di semplificazione con cui ci può migliorare la vita – ne parla Paride qui. Più in generale, il modello di apprendimento per il ventunesimo secolo e l’era digitale sarebbe un tema enorme, per cui varrebbe la pena di far scorrere fiumi di inchiostro. Ma non è questo il momento. 

I limiti della digitalizzazione delle università

Per una volta non sono qui a sviolinare il digital in ogni sua forma. L’onestà intellettuale impone che vadano sottolineati anche i suoi limiti, quelle cose che probabilmente il digitale non ci restituirà mai come l’analogico. E in particolare nelle eccellenze universitarie, la digitalizzazione universitaria forzata e la mancanza di una previsione di ritorno della vita tradizionale in campus, potrebbero essere una grande livella

Ci sono temi e bisogni fondamentali che non sappiamo come possono essere affrontati dalla digitalizzazione dell’università. E questo è un problema per chi ha proposte di valore che non siano focalizzate sul solo contenuto delle lezioni ma anche su tutto ciò che ci ruota attorno.

Primaria necessità formativa – tratto dal box commenti dell’intervista di Montemagno a Gianmario Verona, rettore della Bocconi

Come digitalizzeremo il networking?

L’università è la prima sede del networking di futuri professionisti. Anche in coda al bagno tra una lezione e l’altra si può finire per conoscere un futuro collega o socio in affari – o il prossimo Bill Gates. 

Lo scambio di informazioni e prospettive tra pari è una delle più grandi leve formative che abbiamo a disposizione. Che sia full digital o che sia blended, il nuovo apprendimento universitario non si capisce come potrà convivere con questo meccanismo essenziale. In generale questo discorso rientra nel più grande tema (che stiamo tutti facendo finta che non esista ma esiste eccome) della “nuova socialità” che avremo nella convivenza col virus – e la convivenza col virus è qui per restare a lungo termine, rassegniamoci.

E ancora: l’apprendimento, viva Iddio, ha smesso di essere puramente frontale da un po’. O almeno, quello di qualità. L’interazione con gli altri individui, dal semplice domanda e risposta col prof alla didattica basata su project works in team, l’ha potenziato e modernizzato. Come potremo implementare questa e altre modalità in modo altrettanto efficace dopo la digitalizzazione forzata delle università?

Come digitalizzeremo la verifica?

Finora son stati applicati meccanismi di controllo alla Orwell. L’altra faccia delle scene domestiche osannate nelle call di lavoro è lo studente universitario che dovrebbe dare un esame più o meno sottovuoto. Doppia webcam e microfono accesi e puntati su di sé da due angolazioni diverse – frontale e orizzontale. Niente fogli, niente carta, niente penne, niente conti a mano. Il confessionale del Grande Fratello, che si sa, non ha mai fatto da teatro a grandi prodotti intellettuali. 

Abbiamo seriamente intenzione di far vivere agli studenti universitari la fase di verifica come se fossero insetti conservati nell’ambra? Che messaggio passa se non quello della mancanza di fiducia e responsabilizzazione dei professionisti dell’immediato domani?

Sicuramente questo è un problema che ci portiamo dietro dal sistema scolastico offline. Dopotutto, anche prima del CoViD-19 il professore si trasformava nella polizia segreta in sede d’esame. E questo mi dà l’occasione di passare a considerare quello che sta succedendo secondo un punto di vista più ampio e sicuramente più qualificato del mio.

Digitalizzazione dell’università o “digitalizzamento”?

La mia estrazione markettara è probabilmente tradita dai leader di pensiero che seguo. In questo periodo, sto seguendo moltissimo il Prof G, Scott Galloway, e il prof Diegoli. Il secondo, più di una settimana fa, ha fatto una considerazione che, pur essendo di mercato, si applica bene anche al tema della digitalizzazione dell’università e dell’apprendimento.

“questi sono i giorni del picco del ‘facciamo un sito’, o ‘facciamo un ecommerce’. ‘Presto, non c’è tempo da perdere!’ […] È il problema eterno di non ripensare il modello di business alla luce del digitale, e invece di pensare di traslare tale e quale il modello usato offline sull’online, come trasformare un quotidiano in pdf. Non funziona, il digitalizzamento.”

AMEN.

Sembra che moltissime realtà universitarie, anche molto quotate e i cui modelli sono osannati come modelli di eccellenza, stiano facendo proprio questo. Traslare l’offline direttamente nell’online. Guess what? Non si può. Soprattutto, come visto, non si può traslare pari pari ciò che c’è di virtuoso nei modelli. Curiosamente, le storture, quelle sì che si traslano da Dio.

La fretta è cattiva consigliera, e sembra essere stata ascoltata da tutte quelle realtà che pensano che il digitalizzamento sia digitalizzazione. E che tanto basti. No, non basta, ve lo dice anche Calvino.

Che c’entra Calvino?

Italo Calvino, uno che ci capiva di teste umane, ha scritto una volta “Chi comanda al racconto non è la voce: è l’orecchio”. Sempre sia lodato: non è il corpo docente o un management di intellettuali nella torre d’avorio a definire di per sé le best practice. Quella è la voce. L’orecchio è l’utente, in ogni settore, e in questo caso quindi lo studente.

La domanda che mi pongo e pongo è: quanto e come abbiamo interpellato gli studenti nella definizione del piano di digitalizzazione dell’università? E perché mi viene da rispondere “poco e male”, quando provo a darmi una risposta e vedo questo barbaro digitalizzamento che non ha colto l’occasione per risolvere anche gli annosi problemi che avevamo nell’analogico (vedi il corpo docenti come gendarmeria in fase di verifica)?

Quanto meglio vivremmo tutti questa migrazione di massa online, se ci abituassimo a badare più all’orecchio che alla voce nell’implementare le novità. E questo in tutti i settori, ti rimando a quel che dice il prof Diegoli più su.

Video killed the classroom star

Altro elefante nella stanza, ma questo soprattutto per le scienze sociali. La struttura di una lezione in aula è necessariamente diversa rispetto alla struttura di una lezione in via totalmente digitale. Lo riconosce lo stesso Gianmario Verona, rettore della Bocconi, nella sua intervista con Montemagno.

Che vuol dire una cosa del genere? Vuol dire che il professor Keating de “L’Attimo Fuggente” lo salutiamo e gli auguriamo tante care cose, se non sa esprimersi ugualmente bene in modalità digitale. La provocazione che lanciano Verona e Montemagno nell’intervista è che “il professore deve diventare più youtuber”.

Professor Keating in L'Attimo Fuggente
Dura fare “O capitano, mio capitano” senza banchi, eh? – immagine da Wikipedia

Ed è vero, mamma mia quant’è vero. Altrimenti perché dovrei scegliere i corsi erogati online da una Bocconi al posto di – che ne so – l’AltMBA di Seth Godin, i videocorsi di Scott Galloway o quelli di Gianluca Diegoli su Digital Update? A potenziale parità di contenuto, nei secondi mi confronto con dei luminari della disciplina nella pratica a una frazione del prezzo di una Bocconi – di nuovo, non intellettuali nella torre d’avorio.

Le università non si potranno nascondere per sempre dietro la patina dell’istituzione. Prima o poi ci renderemo conto che 10 ore con il professionista giusto son molto più profittevoli in termini di apprendimento di 30 ore in aula ed n ore di studio a casa per 6 CFU, con un eccezionale teorico della disciplina che però non ha mai applicato le sue conoscenze al mondo reale. Un insegnante praticamente auto-eletto e non necessariamente alla prova dei fatti.

Costo in opportunità: il gap year

Una dei primi concetti che si insegnano nelle scienze economiche è quello del costo in opportunità. Il concetto è abbastanza semplice: se scegli di usare le tue risorse limitate (soldi, tempo, personale, quelchetipare) in un modo, rinunci al ricavo che ti avrebbero portato tutte le altre possibili scelte

Se scegli di studiare dopo le superiori, fai un investimento: non produci reddito per almeno 3 anni (tradotto non guadagni ma costi alla famiglia) nella convinzione che la formazione ti porti ritorni maggiori quando entrerai nel mercato del lavoro. Un ragionamento che ha assolutamente senso e che condivido personalmente appieno. Studia finché ti è permesso dalle risorse che hai.

Il ritorno economico dell’apprendimento

Ma non è che in questo momento un giochino che di norma ha sempre funzionato e sempre funzionerà, potrebbe smettere momentaneamente di funzionare? Mi spiego. Alla quasi parità di costi – retta, libri di testo, escludiamo vitto e alloggio ma mettiamoci una maggior spesa in strumenti digitali (dalla stampante alla webcam) – la qualità della formazione in questa situazione bilancia ancora quei costi? 

Paradossalmente, questo ragionamento che insinua un dubbio vale soprattutto per quelle università estremamente costose che non sono di élite solo in termini di estrazione sociale e patrimonio familiare degli alunni, ma anche in termini di risultati formativi, di ricerca, di placement, di network. La digitalizzazione dell’università, forzata e spesso fatta come si è detto, ha rotto provvisoriamente il giochino dello studio come investimento sul proprio futuro?

Il giochino si sta rompendo

Il dubbio nasce dal già citato Scott Galloway nei suoi articoli e podcast. Anche se è ovviamente focalizzato sul mondo anglosassone nei suoi ragionamenti per ovvi motivi, e anche se non manca di conflitto di interessi nel dirlo, comunque fa un’analisi interessante. In particolare, a questo ragionamento ne fa seguire un altro. Quello del gap year.

Il gap year altro non è che un anno di interruzione degli studi tra una tappa e l’altra del percorso scolastico. Un anno in cui diversificare la propria formazione. Può essere fatto col servizio civile – qui Galloway vista la situazione si spinge in un‘arditissima proposta molto americana, la creazione dei “Corona Corps” –, o semplicemente lavorando con mansioni umili, o ancora scegliendo la formazione da autodidatta con libri e corsi a libera scelta. 

A margine di questo, i suoi dati mostrano che chi si iscrive all’università dopo un gap year tende a laurearsi di più e con voti più alti di chi il gap year non l’ha fatto.

Risultati studenti universitari dopo un gap year
Le statistiche del Prof Galloway sui risultati universitari degli studenti dopo un gap year – courtesy of profgalloway.com

E se il gap year diventasse la scelta dominante nell’immediato post-coronavirus, come reagirebbe il sistema delle università, soprattutto quelle private descritte come eccellenze?

La digitalizzazione non è la risposta a tutto

Insomma non è tutto oro quel che luccica. La migrazione online dei modelli di formazione e apprendimento universitari è un processo che, in Italia ma anche in tutto il mondo, ha ancora molto da migliorare. A farne le spese sono gli studenti, che spesso vedono le tuition invariate ma un’offerta formativa non più all’altezza.

L’impressione è che molti elementi di eccellenza formativa non siano replicabili online e non siano slegabili da una dinamica di assembramento. Davvero a questo punto le università hanno una proposta di valore maggiore rispetto alle migliaia di opportunità proposte da aziende di formazione e professionisti affermati online? Soprattutto considerando che quest’ultime sono da sempre online, pensate per l’online. E abbiamo visto che fa tutta la differenza del mondo.

Thomas Siface