Dante Alighieri e il cibo: piacere o peccato? – #fooks

In una rubrica che tratta di letteratura, non poteva certo mancare un riferimento al sommo Poeta, padre della lingua italiana. Dante Alighieri, infatti, tra una legge del contrappasso ed un verso per Beatrice, ha trovato il modo di parlare di cibo anche nella sua opera più famosa, la [Divina] Commedia. Come tanti altri concetti, anche quello di fame assume nell’opera in endecasillabi più famosa al mondo un significato più profondo. Essa induce l’uomo a peccare di gola, e quindi ad essere soggetto ad atroci sofferenze. Ma può riferirsi anche alla fame di beatitudine delle anime del Paradiso.

Le stesse pene inflitte ai peccatori nei gironi infernali presentano riferimenti al cibo ed all’atto del cucinare. Non mancano, infatti, anime “cucinate” dai diavoli nella pece, come i barattieri, o “bollite” nel sangue, come i violenti verso il prossimo. E fra tutti i cibi, il pane riveste significati importanti. Il suo sapore sarà lo stesso dell’esilio, così come gli preannuncia Cacciaguida: Dante, che certamente era abituato a mangiare pane toscano, insipido, scoprirà “come sa di sale lo pane altrui” perché costretto a lasciare Firenze e mangiare altri tipi di pane. E che dire del conte Ugolino? Egli addenta la testa di Ruggieri come un affamato addenterebbe il pane e la sua stessa pena ricorda come morì di fame assieme ai suoi figli.

Che dire poi della pena riservata ai golosi nell’Inferno? Come in vita essi sono stati ossessionati dal pensiero ricorrente del cibo, così sono battuti continuamente dalla pioggia. Cerbero, che di loro fa strage, li rende divorati da divoratori che erano. La scelta della pena generica sottolinea il distacco e la ripugnanza del poeta nei confronti di un peccato che degrada chi lo commette a una condizione bestiale.

Nel Purgatorio, invece, la punizione per i golosi è legata alla colpa commessa. Infatti, qui le anime espiano il peccato di gola soffrendo la fame e la sete. E la loro sofferenza è resa più acuta dalla vista di acqua limpida e frutti gustosi, che però non possono toccare. Tutt’altra storia nel Paradiso, dove il banchettare non è più fonte di peccato ma premio per una vita corretta. Il cibo lascia il suo ruolo di nutrimento e si riveste di significati, riti e simboli. Le anime qui vivono di “pane degli angeli”, ossia dei misteri divini e della contemplazione mistica.

Pare che Dante Alighieri non fosse molto ghiotto. Riteneva che bisognasse mangiare per vivere, non viceversa, e riteneva disdicevole abbandonarsi smisuratamente al cibo. Siamo però riusciti a scovare un aneddoto sul comportamento di Dante a tavola, raccontato da Giovanni Sercambi. Roberto D’Angiò re di Napoli, capo del guelfismo italiano in Firenze, invita Dante a pranzo a Napoli. Vedendo arrivare il poeta vestito “con negligenza” il sovrano, che ci teneva all’etichetta, lo fa sedere in fondo al tavolo. Quello era il posto destinato agli ospiti di rango inferiore, ma Dante non batte ciglio. Tuttavia, appena finito di mangiare, si alza e lascia la città.

Il re realizza di aver trattato male il poeta, e lo invita nuovamente. Questa volta Dante si presenta con vesti così sfarzose che il re gli fa assegnare uno dei posti d’onore. Ma appena arrivano le vivande Dante comincia a rovesciare cibi e vino sui suoi vestiti. Il sovrano, sbalordito, gliene domanda la ragione. Ed il poeta gli risponde: “Santa Corona, io cognosco che questo grande onore ch’è ora fatto, avete fatto ai panni miei e pertanto io ho voluto che i panni godessero le vivande apparecchiate”.

Emilia Granito