Curare il Parkinson: forse è possibile con un chemioterapico

Le immagini che associamo ai farmaci chemioterapici spesso sono le stesse del dolore: i volti scavati dei malati di cancro, la battaglia difficile contro un male silenzioso, gli implacabili effetti collaterali. Eppure essi possono portare a scoperte inaspettate così come nel caso del nilotinib, un farmaco antitumorale largamente usato nel trattamento della Leucemia Mieloide Cronica. Nel corso di un importante congresso internazionale che si tiene in questi giorni a Chicago, il Neuroscience 2015 organizzato dalla Society of Neuroscience, sono stati presentati i dati della sperimentazione del nilotinib nel trattamento del Parkinson.
Il morbo di Parkinson è una malattia neurodegenerativa che coinvolge principalmente il controllo dei movimenti e dell’equilibrio. Essa ha origine in una regione del cervello, nota come Sostanza Nera, popolata da neuroni dalla singolare capacità di produrre dopamina e per questo chiamati neuroni dopaminergici. Questi ultimi vanno incontro a degenerazione causando una riduzione dei livelli di dopamina contestualmente alla quale sembra aver inizio l’accumulo di alcune proteine cellulari, come l’α-sinucleina, in grado di intossicare le cellule e portarle alla morte. Molto è ancora da comprendere sulle cause d’insorgenza e la patogenesi della malattia, ma un ruolo importante è certamente svolto dalla genetica.
laboratoriIn che modo è possibile utilizzare un farmaco anticancro per curare una malattia neurologica? Tutto risiede nel meccanismo con cui il nilotinib funziona. Come chemioterapico, esso agisce stimolando ed esasperando un processo altrimenti naturale, noto come autofagia, spingendo le cellule tumorali alla morte. L’autofagia, come dice il nome stesso, è una sorta di auto-digestione della cellula che, in condizioni  normali, viene utilizzata per ricavare energia e distruggere le proteine prodotte in eccesso. Il farmaco, a dosi elevate, induce questo fenomeno in maniera molto marcata nelle cellule tumorali fino a condurle a morte. Nel Parkinson l’accumulo di proteine nei neuroni sembra avere un ruolo importante nella patogenesi della malattia ragion per cui riattivare l’autofagia a livelli fisiologici, con lo scopo di stimolare la degradazione delle proteine di troppo e ridurne gli effetti tossici, potrebbe migliorare di molto le condizioni di vita dei pazienti.
A questo scopo il Nilotinib è stato usato, prima nel topo poi sull’uomo, in concentrazioni nettamente inferiori rispetto a quelle impiegate nella terapia antitumorale, idea che sembra aver dato risultati insperati. Nei dati preliminari raccolti da un gruppo di ricercatori del Georgetown University Medical Center (GUMC), appare in grado di ridurre il declino cognitivo di pazienti affetti dal Parkinson. Non si tratta ancora di un vero trial clinico, in quanto privo dei requisiti fondamentali come l’uso del confronto con un placebo e la ben nota pratica del “doppio cieco”, ma il Nilotinib, nelle dosi impiegate per trattare la neurodegenerazione, sembra essere ben tollerato dai pazienti con un miglioramento della loro condizione.
Per quanto si tratti ancora di una sperimentazione, essa rappresenta un valido esempio di come sia possibile trasferire molte delle conoscenze raccolte all’ambito applicativo e terapeutico, accelerando di molto il processo verso la cura. Per il Nilotinib, approdato alla sperimentazione umana quale alternativa ai dopaminergici dopo solo due anni dai dati preclinici sulla sua funzione nel trattamento del Parkinson, si apre una strada del tutto nuova e con essa una speranza in più per i molti pazienti in attesa di una cura risolutiva.
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Silvia D'Amico