Charlie Chaplin: un genio dello spettacolo con la poesia nel cuore

Sono solo piccoli indizi quelli che rivelano l’imperscrutabile disegno che Madre Natura dissemina sin dai primi vagiti del predestinato sulla strada del successo. E più sono legati a circostanze misteriose che diventano romanzesche, meglio riescono ad abbellire la storia delle sue origini.

Si narra dunque che nacque dentro un carro di zingari, forse in mezzo ai tanti loro costumi di scena e che in quell’ambiente i suoi estemporanei genitori: un mediocre attore alcolista e una vulnerabile cantante di music hall, riuscissero al meglio a esaltare le loro qualità sino a trasmettere il meglio dell’ereditarietà dei loro geni con quelli del piccolo. E siccome in questi casi le stelle non stanno a guardare, quella notte esse scrissero nel cielo il suo destino: sarebbe diventato il redentore tra le varie statuine cinematografiche nel presepe che di lì a poco sarebbe nato dall’industria Hollywoodiana.

Charlie Chaplin, ereditò intatta la passione per lo spettacolo dimostrando fin da bambino la sua straordinaria e fiammeggiante versatilità artistica: aveva appena cinque anni quando per salvare capre e cavoli fu costretto a prendere il posto della madre a più riprese fischiata durante uno spettacolo. Nel crescere poi sviluppò di tanto il suo talento recitativo, aggiunse forti contenuti a una straripante creatività e coltivò con naturalezza un prodigioso senso scenico. Queste impareggiabili qualità ben presto lo avrebbero consacrato genio assoluto dello spettacolo, grazie anche al suo straordinario amore per la vita in senso lato che in lui generava sentimento, poesia e bellezza.

La sua nascita avvenuta a Londra nel 1889, anticipò di poco l’invenzione di quella meravigliosa creatura chiamata Cinema con cui visse più di cinquant’anni d’indimenticabili e risplendenti momenti di magia.
Nonostante gli stenti di un’infanzia difficile, la sua precocità d’apprendimento lo portò a tappe forzate dopo una serie di esperienze teatrali e circensi con la compagnia di Fred Karno tra il 1906 e il 1907, prima a Parigi e poi negli Stati Uniti, dove firmò nel 1913 il suo primo contratto da professionista. Qui stabilitosi, ormai esperto nell’arte del mimo, Chaplin inventò l’anno successivo l’immortale personaggio di Charlot: un frenetico schizzo d’uomo emarginato, povero e vagabondo che sbarca il lunario ingegnandosi e diventa simbolo di libertà e ribellione contro le ingiustizie del mondo. Le sue esilaranti, toccanti e umane avventure sono eccezionali capolavori del cinema muto che ieri come oggi incantano per la sublime rappresentazione dell’arte di vivere. Miseria e nobiltà, allietate da delicate vicende sentimentali, inchiodarono sulle sedie dei cinema milioni di entusiasti spettatori.

Era il tempo dei pionieri, di quei visionari, molti dei quali europei, accomunati dallo spirito d’avventura nelle cui vene scorreva il sangue blu creativo, quello che fa scorrazzare divertiti i cromosomi tra i neuroni del cervello.
Un corpo e un’anima con la settima arte dal 1914 fino al 1919 Charlie Chaplin, ingaggiato dalle major di allora: Keystone, Essanai, Mutual e First National, in veste di attore, regista, sceneggiatore, firmò numerosi cortometraggi, tra i quali spicca Il Vagabondo, quintessenza della filosofia di vita del suo alter ego Charlot, il poetico personaggio dell’omino coi baffi,scarpe grosse e bastoncino di bambù
Alla fine di quel periodo, rivelando uno spiccato senso d‘indipendenza, prima che quello degli affari, aveva nel frattempo fondato assieme a Mary Pickford, Douglas Fairbanks e David Word Griffith la casa di produzione United Artists Corporation, con la quale lavorò incessantemente per quasi un trentennio.
Sotto quest’egida, sempre più deus ex machina della celluloide, sfoderò una lunga sequela di film straordinari tra i quali spiccano titoli indimenticabili: Il Monello, primo della serie dove fece debuttare il piccolo attore Jackie Coogan, lo incoronò star assoluta. Successo in seguito ripetuto con La febbre dell’oro, spietata rappresentazione dell’avidità umana. Il circo, fu un film travagliato per via delle sue vicende sentimentali. Fazzoletti in azione con la visione di Luci della città, delizioso ricamo dei sentimenti umani e primo romantico tentativo di avvicinamento al sonoro incombente. Infine Tempi moderni, ultimo film con il personaggio di Charlot, rappresenta l’alienazione mentale di un operaio a causa dei gesti ripetitivi alla catena di montaggio in una grande fabbrica.

Una magnifica serie di poetici racconti cinematografici, illustrati semplicemente da didascalie e accompagnate da un appropriato commento musicale che convinsero lo stesso Chaplin, ormai affermato e splendido protagonista, regista e sceneggiatore, a migliorarsi ancora in quest’altro aspetto cinematografico.

Quindici anni, dal 1921 al 1936, sarebbe durata quest’epoca, alla fine il muto muore e il sonoro avanza.
Scoppiata la tragedia della seconda guerra mondiale, nel 1940 il prolifico autore a tutto tondo adeguandosi infine inevitabilmente alle nuova e moderna esigenza, riesce benissimo a rappresentare la realtà dell’epoca confezionando un’opera storica: Il grande dittatore, con cui lascia stupefatti per la fantastica interpretazione di un doppio ruolo. Nel primo veste i panni, o per dire meglio la divisa di un tirannello che scimmiotta Adolf Hitler, mentre nell’altro impersona un pacioso barbiere ebreo che sbeffeggia con tagliente ironia quel suo sosia esagitato guerrafondaio. Mettendo in primo piano l’arguto artigiano, con il mirabile Discorso all’Umanità, il profetico regista inglese esalta l’immenso significato del pacifismo contenuto nel film. Cui segue, a distanza di sette anni, un altro suo riconosciuto capolavoro: Monsier Verdoux, una raffinatissima rivisitazione psicologica di un padre e marito esemplare che costretto dalle necessità si trasforma in un assassino seriale. Proprio all’uscita di questo film, Chaplin, uomo di larghe vedute e dal pensiero quasi rivoluzionario, non avendo per di più mai chiesto la cittadinanza americana, fu accusato di filo comunismo e catapultato nel cono d’ombra del senatore Mc Carthy. Nonostante quel clima ostile cominciò la lavorazione, nel 1951, di Luci della ribalta, film in cui l’elegante e malinconica metafora del crepuscolo di un attore coincide col suo reale epitaffio dal ruolo, che diventa poi commiato dagli Stati Uniti quando l’anno dopo apprese di non essere più cittadino gradito.

Celebrato con soli due Oscar alla carriera, 1929 e 1972 e uno retroattivo nel 1973 appunto per le musiche di quest’ultimo film da protagonista, finito nel 1952. Questa eccellente performance sembrò, di fatto, terminare la sua parabola professionale e invece cinque anni dopo, sopratutto per rivalsa politica contro l’amministrazione americana che l’aveva espulso, si volle togliere un sassolino dalle scarpe curando la regia del film Un re a New York. Qui l’accento palesemente critico nei confronti degli States che emerge dalla vicenda, fu anche causa dello scarso successo del film. Flop, ancor più evidente, a nove anni di distanza, quando ritornò dietro la macchina da presa per dirigere il pretenzioso La contessa di Hong Kong. Nonostante la prestigiosa presenza di Marlon Brando e Sofia Loren e, come ai vecchi tempi, del suo totale coinvolgimento: produzione, soggetto, sceneggiatura e colonna sonora, in primis la deliziosa canzone This is my song, a riprova di una particolare sensibilità musicale e il personale cammeo di una sua estemporanea apparizione, il film, unico a colori e ultimo della serie, ebbe un’insufficiente accoglienza di pubblico e critica rispetto alle aspettative. Un congedo di umana vanità che non offusca minimamente la grandezza di un uomo vivace come Charlot nel privato ed esigente sul lavoro come Monsieur Verdoux. Capace di volare sulle ali della fantasia e nello stesso tempo planare sul terreno della realtà perché aveva capito che l’arte più grande di tutte è quella di vivere.

L’ineluttabilità della sua morte invece fu meno terribile del previsto, sia perchè quasi novantenne e sia perché attorniato e confortato fino all’ultimo da una famiglia che più allargata non si può. Lo testimoniarono tre mogli, tanti figli e una miriade di nipoti, perché paradossalmente era un uomo dai sentimenti contrastanti. Anche in questo frangente il cielo pensò bene di scegliergli il giorno più adatto: Natale 1977, quella volta però la scia luminosa della stella cometa ci indicò di seguire la vita dell’uomo dei sogni, quelli che talvolta diventano realtà, soprattutto la notte del 25 dicembre.

Vincenzo Filippo Bumbica