Carlos Monzon: il selvaggio del ring

Rodolfo Sabatini, era un uomo che la sapeva lunga: con uno sguardo andava fin dentro lo stomaco. Da cronista di boxe divenne poi organizzatore di tali eventi e per questo viaggiava molto. In una delle tante trasferte intuì subito, da profondo conoscitore della nobile arte e quindi dell’animo umano, che quel giovane argentino, nelle vene del quale scorreva la determinazione come una furia selvaggia, avrebbe presto dismesso i panni di un carneade qualsiasi. E quando ciò puntualmente avvenne, sconsigliò caldamente al clan di Nino Benvenuti di sceglierlo come sfidante ufficiale al titolo mondiale dei pesi medi.

L’avviso ai naviganti non fu preso troppo sul serio neanche dal legittimo detentore che giustamente sguazzava beato nella gloria dopo aver difeso per ben quattro volte consecutive la corona. Solo in una di queste, in palese difficoltà contro il picchiatore caraibico Luis Manuel Ramirez detto “El Feo”, aveva risolto l’incontro con un colpo da autentico fuoriclasse: a detta di molti esperti, il più bel gancio della sua carriera.

In fiducia totale dunque nel suo estro creati
vo, il bel biondino dal volto pulito, pensava perciò di tamponare la potenza di quell’indio, torvo, rozzo e cattivo. Alla fine tutti, compresi i bookmakers e gli addetti ai lavori, tranne il dubbioso Sabatini, erano quasi certi che il titolo non corresse alcun pericolo e sarebbe rimasto perciò in Italia.

Su questo non era d’accordo Carlos Monzon, così si chiamava quel figlio della pampa, un tizio che il crudele gioco del ring lo aveva sperimentato da dilettante nelle più luride, scalcinate e maleodoranti palestre argentine a cospetto di tipacci violenti che di pugili avevano solo i guantoni. Eppure da dilettante vinse circa settanta matches. Passò professionista nel 1963 e a cominciare dall’anno dopo, solo tre implacabili satanassi lo misero sotto: il veterano Aguilar; cui seguì il brasiliano Cambeiro per finire col connazionale Massi. Sconfitte salutari per il pugile di Santa Fè che seppe farne tesoro affinando il suo stile pugilistico, tanto che già passati dodici mesi sui primi due si prese una solenne rivincita. Da qui un’irresistibile escalation che lo portò a diventare, con la parentesi del pari con il fortissimo Benny Briscoe e attraverso le vittorie contro Fernandez e Orrico, il campione sudamericano dei pesi medi.

Padrone dunque del suo destino e cattivo più che mai Carlos, in quell’incontro per il mondiale, portò a spasso per undici round facendolo talvolta traballare, l’incredulo Nino Benvenuti che smarrito e fuori condizione tentò disperatamente il colpo della domenica, ma quel giorno alla ricerca del gancio sinistro perduto era un sabato e puntuale come una mannaia sul collo di una vittima sacrificale, il destro terrificante dello sfidante si abbatté sulla mascella dell’invitto campione.

Si spensero l
e luci e tacque ogni rumore: per i quindicimila romani convenuti al Palazzo dello Sport, quel sette novembre del 1970 segnò la fine di un mito e a nulla valse sei mesi più tardi sul ring di Montecarlo un’inopportuna rivincita dettata solo dall’orgoglio smisurato del pugile triestino perché solo quello gli era rimasto poiché la passione al sacrificio, quella se ne era andata via già da un pezzo. Soltanto un pietoso asciugamano gettato dal suo manager Bruno Amaduzzi, salvò l’incauto Nino da una punizione più severa.

Morto il Re, viva il Re. Lo stesso anno sul ring del Luna Park di Buenos Aires sotto l’abile regia di Tito Lectoure suo manager e mentore assieme all’allenatore Amilcar Brusa, l’ex lustrascarpe dalla rissa facile sesto dei dodici figli di papà Monzon, celebrò la sua incoronazione ufficiale battendo per KOT alla quattordicesima ripresa, titolo in palio, il vetusto ma sempre insidioso Emile Griffith. Dopo una capatina a Roma nella primavera successiva tanto per lucidare il titolo mettendo ko in cinque round il malcapitato americano Denny Moyer, il capriccioso argentino che da sempre diffidava del particolare ambiente attorno ai ring nordamericani, divenne un assiduo frequentatore dei ring europei con una spiccata preferenza per Parigi. Qui nel giugno del 1972 a bordo ring, occasione dell’incontro mondiale con Jean Claude Bouttier, si ritrovarono tante importanti personalità e personaggi dello spettacolo: Alain Delon in testa anche in veste di organizzatore, la moglie Nathalie, Ursula Andress, Jean Paul Belmondo assieme a uno stuolo di Vip degni rappresentanti del bel mondo parigino.

L’implacabile indio dal volto di pietra così come il suo pugno non diede scampo neanche al baldanzoso pugile francese che stremato abbandonò all’inizio della dodicesima ripresa.

Ormai era fatta, il ragazzo di San Javier ne aveva percorso di strada. A trenta anni era giunto all’apice del successo e data la sua esuberanza divenne anche personaggio e protagonista della mondanità. E qui le dicerie si sprecano, specie quella riguardante una certa notte in un hotel, dove in ascensore l’irresistibile macho pare abbia soddisfatto le insane voglie di più d’una delle gentili signore convenute al suo match.

Questo modo d’essere gli procurò una marea di guai poiché sposato e risposato aveva anche l’amica del cuore: poco male finché era in attività, ma quando smise pian piano entrò nel buco nero della violenza gratuita figlia di esasperazioni, rancori e gelosie, sperperando oltre il denaro, la sua esistenza. La sua nemesi iniziò un giorno del 1988, quando al termine di una furibonda lite, si scaraventò dalla finestra del primo piano assieme alla compagna Alicia Muniz. Il guaio fu che la morte di quest’ultima non avvenne per la caduta, ma per strangolamento come rivelò l’autopsia.Il sopravvissuto Monzon, accusato di omicidio, si beccò una condanna a undici anni di carcere. Dove un giorno, a porre l’accento sulla grande umanità che non tanto misteriosamente circonda il mondo della boxe, un solidale Nino Benvenuti venne a trovarlo. La tragedia si consumò, qualche anno dopo nel 1995, quando in libertà vigilata, il mai domo Carlos pigiò troppo forte il piede sull’acceleratore dell’auto mentre rientrava nel carcere di Las Flores.

Anche questa volta, l’ultima, aveva infranto una regola, dopo che per la durata di sette anni difendendo il titolo per undici volte, paradossalmente ne aveva scritto un’altra: quella del più forte in assoluto poiché ritiratosi imbattuto nel 1977.

Carlos Monzon, per essere considerato il più grande pugile della categoria dei pesi medi, degli ultimi quaranta anni lo è di sicuro, è sopravanzato di un’inezia dal fantascientifico Ray Sugar Robinson, però le sue qualità, rarissime in una sola persona, luccicano nel libro d’oro della boxe, dove sta scritto il suo nome a caratteri cubitali.

Egli, oltre che un incontenibile picchiatore, era anche un ottimo incassatore e a Montecarlo quel giorno del 1976, in cui lo sgusciante Rodrigo Valdes lo prese in pieno col suo destro, lo dimostrò: quel colpo avrebbe atterrato un toro ma Carlos, pur digerendolo a fatica, si riprese e vinse quell’incontro valido per la riunificazione del titolo.

Inoltre, le sue caratteristiche fisiche lo ponevano sempre in condizione di vantaggio: era un medio massimo truccato. Un vero peccato non sia riuscito a truccare il suo destino sfoderando, come asso nella manica, i belletti necessari per abbellire il volto di una esistenza vissuta nella bruttura della pura violenza .

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Vincenzo Filippo Bumbica