Arrival: la fantascienza da oscar di Villenueve

Candidato a ben 8 premi oscar, “Arrival” di Denis Villenueve porta nuovamente la fantascienza ad alti livelli con una pellicola di forte impatto visivo ed emotivo che affronta ancora una volta il tema dell’incontro tra l’uomo e un’intelligenza aliena.
Tratto dal racconto “Storia della tua vita” del pluripremiato autore statunitense Ted Chiang ( vincitore dei premi Nebula e Hugo, due dei massimi riconoscimenti nella letteratura fantascientifica), il film si apre fin da subito con un ritmo magnetico che trascina lo spettatore in un susseguirsi vorticoso di tensione e di suspance senza mai perdere il controllo. Il regista, che già nei precedenti lavori (tra cui “Prisoners”) aveva dimostrato la sua abilità nel tenere lo spettatore sulle spine, inquietandolo e attraendolo al contempo, qui, supera se stesso confrontandosi con temi profondi e una sceneggiatura “difficile” (meritatamente candidata alla premiere) , abilmente realizzata e rappresentata.
Come se fosse la sua “ombra” la macchina da presa segue i passi e le scelte della protagonista, la dottoressa Louise Banks, interpretata da Amy Adams (che qui forse avrebbe meritato una nomination all’oscar), una traduttrice di fama internazionale che viene chiamata ad assolvere un compito molto arduo: tradurre un linguaggio sconosciuto a chiunque altro. Il linguaggio alieno.
Le creature extraterresti, infatti, sono arrivate sulla Terra a bordo delle loro astronavi nere e silenziose, a forma di amigdala, simili a enormi pietre sospese; ma al contrario dei loro mezzi per nulla fragorosi (come di solito si immagina siano le astronavi), gli alieni non sono muti, ma emettono suoni disumani, vibrazioni disarmoniche e agghiaccianti con cui sembrano voler comunicare con gli uomini. Nessuno è in grado di capire cosa vogliano. Alla linguista il difficile compito di scoprirlo.
Visivamente stupefacente il primo incontro tra la dottoressa e gli alieni. Villenueve cura il dettaglio, inquadrando “il monolite” da ogni angolazione possibile, con una verosimiglianza e un realismo che fanno rimanere a bocca aperta. E quando gli studiosi e i ricercatori ne toccano la superficie, come loro lo spettatore viene portato a credere che l’oggetto sia veramente reale. Lo scetticismo viene spazzato via dalla “concretezza” sconcertante dell’elemento alieno. Per realizzare questo effetto Villenueve gioca con le inquadrature con un indubbio virtuosismo tecnico, alternando meravigliosi campi lunghi a movimenti da presa decisi e fluidi che assecondano il punto di vista dei personaggi, facendo un ottimo uso della messa a fuoco. Al tutto unisce un sonoro vibrante e avvolgente che si attenua e si “accende”in modo conturbante, perfettamente all’unisono con la tensione mostrata sulla scena, facendo a tratti rabbrividire lo spettatore. Per questi motivi sembrano senza dubbio meritate le candidature per miglior regia, scenografia, sonoro e montaggio sonoro (le c.d. candidature tecniche).

L’incontro con l’altra specie è faticoso e oberante per gli uomini che si affannano a trovare un significato alla presenza aliena sulla Terra, dovendo anche fronteggiare i disordini e le richieste di risposta armata che cominciano a dilagare in ogni Stato. La protagonista, vera artefice della comunicazione, si ritrova talmente immersa nel tentativo di tradurre una lingua estranea, da cominciare, senza accorgersene , a sognare come gli Alieni, a pensare come loro, in maniera sempre più immersiva e coinvolgente.

Qui sta senz’altro la chiave di interpretazione del film che pone profonde riflessioni sulla percezione del tempo e la sua ciclicità, sul linguaggio e sulla conoscenza del diverso. E se in fondo essa non portasse che alla conoscenza vera di noi stessi? Temi suggestivi, cari alla Fantascienza.
Dal punto di vista filmico la pellicola di Villenueve presenta delle unicità davvero interessanti, soprattutto per il taglio mystery, da thriller puro, utilizzato dal regista, che il cineasta canadese mantiene fino alla fine, senza fargli perdere di intensità né di ritmo, soprattutto, senza smarrire lo sviluppo della narrazione(cosa che non gli era riuscita nel penultimo Sicario) e il senso della pellicola. Ogni scena sembra conseguenziale e voluta. L’immedesimazione è totale. La differenza tra realtà e fantascienza sembra non esistere. I due elementi sono fusi insieme, così come la protagonista si fonde gradualmente con l’intelligenza aliena con cui è impegnata a confrontarsi. Il finale a sorpresa, in cui non mancano note di “sensibile amarezza”, è preparato fin dall’inizio e asseconda la sceneggiatura rendendone perfettamente intellegibile il significato. Un’opera di Fantascienza i cui difetti vanno cercati con la lente di ingrandimento per quanto è solida e d’impatto sullo spettatore. Un impatto che non è volto solo a creare suggestioni, ma a lasciare il segno ed è scevro da ogni pateticismo (critica che forse puo’ essere fatta al finale del pur esaltante “Interstellar” di Nolan).

E’ chiaro il debito che il cineasta ha verso i classici della Fantascienza. Innanzitutto verso 2001 Odissea nello Spazio: il monolite di Kubrick e di Sir Artur Clarke (autore della novella, del romanzo e della sceneggiatura) che attraversa lo spazio e il tempo. Lì si da voce al simbolico e al metafisico. Qui è la suspance ad essere veicolo per la riflessione.
Un altro riferimento è senz’altro “Incontri ravvicinati del terzo tipo” di Spielberg in cui gli alieni suscitano “ossessioni” negli esseri umani con lo scopo di avvicinarli alla loro astronave per comunicare. Ovviamente diverso il tono del film, molto più “soft” quello di Spielberg che si concentra più sul viaggio per arrivare agli alieni, piuttosto che sulla comunicazione e l’incontro fisico e mentale con gli stessi, che fin dalle prime battute è il soggetto fondamentale di Arrival.

Da ultimo viene in mente l’ottimo “The Contact” di Robert Zemeckis, la cui trama è in parte simile. Anche qui, infatti, la protagonista è una studiosa (Jodie Foster), intenta a confrontarsi con la decriptazione di un segnale alieno. Al centro della riflessione il dilemma tra scienza e fede, con un ben costruito ribaltamento finale, per cui è la scienziata (atea) a dover provare senza nessuna base scientifica l’incontro soprannaturale che lei stessa ha avuto con l’intelligenza aliena. Più meditativo del film di Villenueve , the Contact ha senz’altro fini differenti, di conseguenza non ha lo stesso impressionante ritmo del primo film, pur rimanendo di forte attrattiva per la sua complessità.
Per tutte queste ragioni “Arrival” meriterebbe di vincere la candidatura a miglior film, anche se è difficile che questo accada. Dovrà confrontarsi, infatti, con “La La Land”, già acclamato a Cannes, che sembra il favorito e il socialmente impegnato “Moonlight”. Da sottolineare inoltre i prossimi “impegni” fantascientifici di Villenueve, con Blade runner 2049 e il reboot di Dune.

Francesco Bellia