#64TFF: Once upon a time in November

L''odissea di una famiglia "nomade" per le vie di Varsavia

In concorso alla 64 Edizione del Taormina Film Fest, dove sarà valutato da una giuria tutta al femminile (composta da Donatella Palermo, Eleonora Granata, Martha De Laurentiis, Adriana Chiesa e Mariagrazia Cucinotta), “Once upone a Time in November” sembrerebbe suggerire dal titolo che si tratti una fiaba.

Proiettato durante la terza giornata del festival nel Palazzo dei Congressi di Taormina, il film del regista polacco Andrzej Jakimowski narra con sguardo fortemente empatico, riflessivo e cinematografico “l’odissea” di una famiglia polacca costituita da madre (Agata Kulesza) e figlio ( Grzegorz Palkowski), che, dopo essere stata sfrattata di casa, si ritrova per le strade, la periferia, i dormitori di Varsavia alla ricerca di una nuova dimora, scontrandosi contro la violenza e la corruzione delle istituzioni e il caos delle  ideologie nazionaliste di estrema destra.

Lungi dall’essere soltanto il racconto del dramma individuale di una famiglia, “Once upon a time in November” si snoda in un graduale percorso di presa di coscienza da parte del giovane Mareczek della propria condizione di senza tetto, di “randagio”, come il cane Koles , che i protagonisti “nomadi” incontreranno sulla propria strada, adottandolo come fosse uno di loro.

Nonostante i suoi tentativi di trovare una soluzione allo sfratto subito, che cercherà di attuare con grande caparbietà e senso di responsabilità, facendosi carico della madre e degli innumerevoli problemi che gli si pareranno di fronte, Mareczek si renderà conto, infine, di essere un disperso, un “naufrago della città“, uno che come molti non sa ancora dove andare o a chi affidarsi davvero.

Nessuno infatti, sembra in grado di tutelare chi è rimasto senza casa, ed il ragazzo e il suo cane diventano metafora di una generazione di giovani che è confusa dalle ideologie, le quali sembrano aver perso il loro significato originario, al punto da non permettere alcuna scelta.

Ciò che rimane è soltanto la rabbia, amplificata dalle aggressive e minacciose istituzioni, che sembrano inneggiare alla violenza, più che a  scongiurarla; è il caos, che travolge la città ed è immortalato con grande consapevolezza cinematografica dal regista nella scena culmine del film, nella quale Mareczek , in cerca del suo cane (che era scappato), attraversa Varsavia in preda alla guerriglia urbana, provocata dai neonazisti durante l’11 novembre, anniversario dell’indipendenza nazionale. Il regista utilizza quindi la vicenda individuale della famiglia sfrattata per inserirla poi in un contesto più grande e descrivere così l’evento realmente verificatosi nel 2017, cioè la violenta manifestazione degli ultra nazionalisti. In questa mirabile sequenza, carica di suspance e di tensione, di paura, la stessa che alberga nello sguardo del protagonista mentre contempla un mondo al rovescio, lo spazio è quasi trasfigurato, sembra  irreale come fosse uscito da una fiaba cupa e conturbante (C’era una volta a Novembre appunto).

Impotenza, dispersione e abbandono sono però le sensazioni che scavano nell’animo del protagonista fin dalla prima scena della pellicola. Il regista è molto attento a trasmetterle attraverso la macchina da presa. Lo fa tramite uno stile che pur parlando del reale, attraverso immagini e situazioni verosimili, è anche metaforico e suggestivo.

Non siamo di fronte ad un cinema esclusivamente di denuncia, volto alla rappresentazione nuda e cruda degli ambienti e delle situazioni, con uno stile secco e distaccato, come ad esempio in alcuni film di Ken Loach, al contrario, ciò che sembra importare di più al regista Jakimowski è lo sguardo dei suoi protagonisti, le loro emozioni, non declamate ad alta voce, o tramite i dialoghi, ma per lo più rappresentate nei gesti, nel rapporto che i personaggi hanno con altre le persone, come il legame silenzioso, ma per lo più complice tra madre e figlio o l’amore semplice, genuino tra Mareczek e la sua dolce ragazza, talmente puro da poter sopravvivere in qualsiasi luogo, persino nella stanza dei motori di un ascensore (tra l’altro l’unico luogo del film in cui compare una luce calda, sebbene incerta, perché collegata al neon di un’insegna).

Altro elemento fondamentale del film è la relazione tra i personaggi e l’ambiente che li circonda. La pellicola è un’alternanza continua di spazi ampi, in cui il ragazzo, la madre e il cane sembrano perdersi; ma anche di luoghi angusti e ristretti, che danno invece una sicurezza precaria e apparente; da qui la necessità dei protagonisti di ritornare nella vecchia casa, anche per qualche attimo, per respirare la solidità di una realtà sicura e non dubbia, al riparo dalla dispersione che abita le strade di Varsavia.

Il legame col cane poi è forse l’idea registica più importante del film. Quest’ultimo infatti è fin da subito trattato come fosse un parente stretto, un randagio, come i protagonisti, che anticipa ogni loro movimento, quasi fosse una continuazione e un alter ego di Mareczek. Il fatto che durante il suo percorso il ragazzo sarà costretto a separarsi dal fedele animale, è un’anticipazione della disgregazione progressiva del suo nucleo familiare e con essa della sua stessa identità. Poco dopo infatti perderà di vista anche la madre, trovandosi da solo in un mondo che sembra non avere ideali ne punti di riferimento. Nemmeno la legge può essere d’aiuto, anzi è proprio quest’ultima ad aver provocato lo sfratto. Come dirà il professore di Mareczek (che studia Giurisprudenza) “Non c’è legge per i senzatetto, così come non c’è legge per i cani. Nessuno dei due è un soggetto giuridico”.

Questa frase mostra chiaramente il paragone che il regista opera tra un’ umanità allo sbando e degli animali randagi. Il finale del film, che ha un orientamento politico, in quanto condanna senza dubbio la folle violenza dei neonazisti, si pone come quello di un favola. Una di quelle fiabe crude e schiette, tipiche della tradizione, dove il lieto fine non è così netto né benevolo. In questo caso consiste nel riconoscere finalmente quale sia davvero la propria casa.

Nel complesso dunque Once upon a time in November è un film convincente, ben pensato, che unisce la denuncia ad una rappresentazione fortemente empatica della psicologia dei personaggi, senza mai banalizzare nessuna delle loro emozioni, anzi utilizzando lo spazio, la città, la sommossa e il cane Koles per amplificarle e descriverle.

Francesco Bellia