Contro Trump: i ripetuti attacchi dello sport americano

Donald Trump ha messo tutti d’accordo, o meglio in disaccordo. Negli ultimi giorni, si sono verificate numerose proteste da parte dell’intero movimento sportivo americano contro l’uomo più discusso al mondo, almeno dopo essere stato nominato 45esimo Presidente degli Stati Uniti d’America, il 20 Gennaio 2017. Dall’NBA alla NFL, passando per la Major League Baseball, atleti, staff, allenatori e presidenti si sono apertamente schierati contro la presidenza del 71enne newyorkese, nelle modalità più diverse.

Gli episodi di protesta negli ultimi giorni trovano in Colin Kaepernick il loro precursore. Il giocatore della National Football League, precedentemente quarterback presso i San Francisco 49ers, si trova da quasi un anno free agent, in seguito al suo atto di protesta contro la figura di Trump. In occasione di una partita contro i Green Bay Packers, il 26 Agosto 2016, Kaepernick è rimasto seduto mentre risuonava l’inno nazionale americano, suonato tradizionalmente prima di ogni partita. Le sue parole –“Non starò in piedi per dimostrare il mio orgoglio per la bandiera di un paese che opprime i neri e le minoranze etniche. Per me è più importante del football e sarebbe egoista guardare dall’altra parte” – hanno suscitato differenti reazioni: da un lato i 49ers hanno diffuso un comunicato in cui si riconosce la libertà di (non) partecipare alla cerimonia dell’inno, dall’altro diversi tifosi e giocatori hanno considerato oltraggioso l’atto del quarterback.

Tra le varie reazioni che si sono susseguite, non sono mancate quelle di Trump, allora ancora candidato alla presidenza degli USA: “Forse dovrebbe trovare un Paese che gli piace di più”, ha commentato. Nelle partite successive, Colin trovò appoggio anche da parte di un altro compagno di squadra, Eric Reid, anch’egli nero e inginocchiatosi durante l’inno. L’epilogo della vicenda? Beh, abbastanza prevedibile, vista la condanna dell’atto da parte della stessa NFL: alla fine della stagione 2016 a Kapernick non fu rinnovato il contratto, motivando la scelta sulla base di prestazioni sportive insufficienti.

Tutto questo per arrivare ai fatti degli ultimi giorni. Due settimane fa, in occasione di una convention per sostenere la rielezione del senatore Luther Strange a governatore dell’Alabama, Trump si è scagliato all’interno del suo discorso contro diversi suoi detrattori. Tra questi, i professionisti NFL e del baseball americano che si inginocchiano durante l’inno americano, prima dei match in calendario, a suo dire “soggetti che minacciano la sicurezza americana”.

Il sabato successivo non si è fatta mancare la risposta degli sportivi chiamati in causa. In occasione della partita tra Jacksonville Jaguars e Baltimore Ravens nella cornice di Wembley, tutti i ventisette giocatori coinvolti nell’evento si sono schierati in ginocchio mentre risuonavano le note dell’inno a stelle e strisce. La stessa scena si è ripetuta poche ore più tardi con i Seattle Seahawks, i Tennessee Titans – rimasti nello spogliatoio durante l’inno -, i Pittsburgh Steelers, i Washington Redskins e gli Oakland Raiders. Un altro esempio è la reazione di Odell Beckham Jr. dopo una fantastica presa in end zone, a cui segue un pugno destro alzato in cielo, imitando la famosa protesta di Tommie Smith e John Carlos a Mexico ’68, che ha costituito una delle fotografie più famose del Novecento. La reazione di Trump – al grido di “fired!”, intimando il licenziamento degli atleti oppostisi all’inno americano – non ha trovato però riscontro: lo stesso Commissioner Roger Goodell si è congratulato con le varie compagini per il modo con cui hanno reagito alle prime parole di Mr.President negli Alabama.

La protesta si è estesa anche all’NBA, riscontrando quindi una cassa di risonanza mediatica ancora più ampia. Steph Curry ha infatti annunciato l’intenzione dei suoi Golden State Warriors di rifiutare l’invito alla Casa Bianca da parte di Donald Trump, tradizionale visita riservata ai vincitori dell’ultimo campionato NBA. Questo quello che ha detto il fuoriclasse in occasione del Media Day della franchigia: “Andare alla Casa Bianca da Trump? Io non voglio andarci. Naturalmente non si tratta solo di me, si tratta della squadra e della franchigia. È strano, ma non so cosa dire perché non so se andremo o no, ma la mia idea è chiara e spero che possa essere un segnale per il cambiamento. Quello che il nostro Presidente dice e il modo in cui si comporta non mi piacciono”.

Non si è fatta attendere la risposta di Trump, tramite un tweet: “Andare alla Casa Bianca è considerato un grande onore per i vincitori del campionato. Curry non è d’accordo, di conseguenza l’invito è annullato”. In aiuto dei Golden State Warriors è arrivato niente meno che LeBron James, anch’egli da mesi critico nei confronti del neopresidente: “Idiota, Curry aveva già detto che non sarebbe venuto, quindi non c’era un invito. Andare alla Casa Bianca era un grande onore prima che arrivassi tu!”. Un clima bollente parzialmente raffreddato dai Pittsburgh Penguins, campioni di NHL, che hanno accettato l’invito alla Casa Bianca del presidente americano.

Da precisare che i vari episodi passati in rassegna non hanno come obiettivo lo scontro totale con il presidente, ma semplicemente la richiesta di rivedere le questioni razziali e di integrazione; Trump sembra invece voler usufruire di questi gesti in una mera ottica di notorietà e di dibattito pubblico. Senza voler entrare nelle questioni politiche che fanno da corollario a queste vicende, quel che è certo è che in un paese in cui atleti e sportivi di questo calibro sono opinion makers assai influenti, non rappresenta sicuramente un momento facile per Donald Trump.

Andrea Codega